“Tutto brucia” dice Ecuba, la vecchia moglie di Priamo, mentre assiste attonita all’incendio di Troia distrutta dai greci. In realtà tutto è già bruciato. È tutto nero, cenere grigiastra sul palcoscenico, dal fondale scende un sudario lucido, quasi untuoso, sembra petrolio, una musica cupa che riempie lo spazio di malinconia ma anche di sogno. Lo spettacolo messo in scena al Teatro India a Roma dalla compagnia Motus si apre a cose fatte, quando tutto è già successo. È il primo elemento di cui tenere conto, il trauma c’è già stato, c’è sempre già stato. Una mossa che da subito sgombra il campo da ogni rimpianto, da ogni discorso o desiderio di un passato che sarebbe stato, invece, armonioso ed equilibrato. Quel passato non c’è mai stato. Si coglie così il senso immediato delle voci quasi animali delle donne di Troia, che non sono un lamento, al contrario, sono le grida di un parto. Non si piange il vecchio, si celebra un nuovo doloroso e mostruoso. Motus schiva così, da subito, il rischio di rimanere bloccato nell’attualità ipocrita delle donne afghane e dei migranti morti nel mediterraneo; c’è solo un accenno, ma è altro quello che ha urgenza di mostrarsi.
Il testo di partenza è la riscrittura/adattamento delle Troiane di Jean-Paul Sartre, ma ridotto ancora più all’osso, non c’è spazio se non per l’essenziale, e d’esseziale ormai ci sono solo i corpi. C’è soltanto e soprattutto Ecuba (Silvia Calderoni), un’altra figura femminile (Stefania Tansini) e la chitarra e la potente presenza scenica di Francesca Morello. Si celebra il nuovo, appunto, e il nuovo è sempre violento. Ma perché il nuovo possa apparire, deve lasciarci l’ombra luttuosa del ricordo: «Vattene senza guardarla» dice Ecuba al vincitore Menelao, indeciso sul destino da riservare alla traditrice Elena; «se il tuo desiderio è sopito sotto le ceneri ella lo ravviverà. Menelao, essa ti riprenderà» (Sartre 2005, p. 56).
La memoria è un deserto bruciato, la memoria deve bruciare, altrimenti il passato prende il posto del presente. La memoria giudica e rimpiange, il presente non si può permettere di scegliere, presente significa che non c’è spazio per le scelte. Queste verranno dopo, ora c’è da occupare lo spazio annerito del presente, c’è da popolare una distesa di rovine. Cè un nuovo popolo che deve arrivare, ma che prima deve spostarsi, deve inventare sé stesso. Per questo, forse, la figura di Elena, che occupa invece una posizione centrale sia per Euripide che per Sartre, è appena accennata. Elena non è una vittima, al contrario, Elena muove le passioni e gli eserciti, Elena è la guerra. Perché anche Elena è il passato. L’indecisione di Meneleao (il passato è sempre indeciso) è lo sconcerto di chi pensava di risolvere tutto con la guerra, e si accorge di non aver risolto nulla. Per questa stessa ragione, perché anche la guerra è il passato, Motus decide di aprire direttamente con il conturbante e sconcertante divenire-mostro di Ecuba, che si aggira sul palcoscenico muovendosi a quattro zampe, ululando, un ibrido umano e non umano, un essere dotato di corna ma che sa anche usare un coltello, con cui strazia il cadavere di una vittima della strage della notte precedente. Il nuovo è cannibale.
È il passato anche il dialogo fra Poseidone e Atena che apre il testo greco (come anche la riscrittura di Sartre), il dialogo assurdo fra due che si sono aspramente combattuti per dieci anni, uno dalla parte dei vinti l’altra da quella dei vincitori, mentre ora si accordano per rovesciare sui greci le disgrazie appena abbattutesi sui troiani. Anche questo ribaltamento è il passato, perché il mondo di cenere delle Troiane è il mondo che c’è, è il mondo che hanno prodotto le guerre e gli incendi, lo sappiamo bene ormai, è inutile stare ancora a perdere tempo sulle colpe e le responsabilità. La memoria è un lusso, sembra dirci tutta questa cenere, un lusso inutile, diversamente da quelli necessari, perché distoglie dall’esplorazione del nuovo.
Ma cos’è, propriamente, questo nuovo? In che senso è mostruoso? È mostruoso, su questo punto la scelta di Motus è insistita, perché “parla” una lingua del tutto incomprensibile. C’è una nuova lingua, e noi (che siamo il passato) non riusciamo a capirla. Nella voce del coro (Francesca Morello) risuona un inglese sognante, e su un pannello luminoso in alto sul palcoscenico vediamo scorrere il testo delle liriche (di Ilenia Caleo), un testo talvolta accompagnato dalla traduzione in italiano. Ma non sempre, e non è chiaro perché a volte la traduzione ci sia altre volte no, o perché certe volte non ci sia nulla, né il testo inglese né la sua traduzione. Non si capisce, o meglio, ci si vuole confondere. E ancora Cassandra entra in scena mugolando dei suoni che sembrano essere linguistici, ma forse non lo sono, un balbettio sonoro né lingua né non lingua. C’è ancora quella che sembra essere la registrazione sonora delle voci, in inglese, quelle che si sentono uscire dai cruscotti delle macchine della polizia, o quelle che provegono dalla cabina di pilotaggio dagli altoparlanti di un aereo, gracchianti e meccaniche: è la voce della guerra, la voce del passato. E ci sono, soprattutto, i lamenti di Ecuba, che sono in realtà prove di un’altra lingua, la «lingua minore» di cui parlano Deleuze e Guattari nel loro libro su Kafka, cioè di una lingua che viene dopo il potere e la violenza, una lingua che non dice più al mondo come deve essere, ma che accompagna il mondo che c’è, lo segue e lo solleva. In questo senso, e le sonorità prolungate della chitarra ce lo confermano, è la lingua misteriosa che parlerà l’umanità dopo che tutto è bruciato. Una lingua terra terra, né umana ma nemmeno non umana, polverosa e umile.
Ecco, il nuovo che si muove sul palcoscenico è fastidioso, violento, incomprensibile, oltre le recriminazioni e le accuse. Un nuovo che parla una lingua che non capiamo, perché noi spettatori siamo diventati quella stessa incomprensione. In questo senso è la lingua del reale, che è reale proprio perché incomprensibile. Reale come i corpi scarni e nudi delle attrici, corpi che hanno rinunciato ad ogni fasto, corpi semplicemente corpi. «Da che cosa acquista importanza la nostra indagine, dal momento che sembra soltanto distruggere tutto ciò che è interessante, cioè grande ed importante?» si chiede Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche: «(Sembra distruggere, per cosí dire, tutti gli edifici, lasciandosi dietro soltanto rottami e calcinacci). Ma quelli che distruggiamo sono soltanto edifici di cartapesta, e distruggendoli sgombriamo il terreno del linguaggio sul quale essi sorgevano» (Wittgenstein 1978, p. 118). Il reale si mostra appunto quando ci accorgiamo che il mondo che abitavamo non era altro, in realtà, che un mondo di cartapesta. Ora c’è solo la cenere, e i corpi. Ma il terreno è sgombro. Qualcosa può cominciare.
Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata 2010.
J.-P. Sartre, Le troiane, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2005.
L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1978.
Tutto brucia. Ideazione e regia: Daniela Nicolò e Enrico Casagrande; direzione tecnica e luci: Simona Gallo; cura dei testi: Daniela Nicolò; traduzioni: Marta Lovato; ricerca drammaturgica: Ilenia Caleo; ambienti sonori: Demetrio Cecchitelli; sound design: Enrico Casagrande; interpreti: Silvia Calderoni, Stefania Tansini, Francesca Morello; produzione: Motus e Teatro di Roma.
* Fotografie di Vladimir Bertozzi, fornite da Piersandra Di Matteo.