La data del 7 ottobre 2023 è destinata a rimanere a lungo impressa nel nostro immaginario collettivo e a influenzare i nostri immaginari di guerra. L’orrendo attacco di Hamas e l’offensiva su larga scala che il governo israeliano ha lanciato in risposta a questo evento hanno cambiato in maniera irrimediabile il nostro presente. A più di un anno di distanza, mentre è di questi giorni l’annuncio di una tregua fra le parti in causa, ritornare a pensare gli eventi che hanno seguito quel giorno diventa al contempo difficile e necessario; difficile perché le immagini sembrano sovrapporsi in una stratificazione di orrori indistinta, necessario perché di fronte all’enormità della distruzione, si deve resistere all’impulso di distogliere lo sguardo.

Riuscire a guardare quella che non si può che descrivere come una «catastrofe che ammassa incessantemente macerie su macerie» (Benjamin 1997, p. 37) è senza dubbio un esercizio complesso, per il quale, dopo l’ottobre 2023, è risultata presto evidente la mancanza di un adeguato strumentario teorico. Il lessico politico che ha accompagnato la descrizione delle guerre del XX secolo si è presto rivelato inefficace, perché anziché vedere in quei tragici eventi la conseguenza di un fenomeno storicamente articolato e complesso (Traverso 2024), siamo stati trascinati in una narrazione politica che ha reso inefficaci ed inutilizzabili tutta una serie di termini che il diritto ci imporrebbe invece di adoperare, come quello di genocidio. È stato dimostrato da tempo come a Gaza sia stato messo in atto un insieme di eccidi che ha corrisposto ad un florilegio di termini più o meno nuovi (p.e. spaziocidio, cfr. Weizman 2022; scolasticidio etc.), eppure quanto è in corso in Palestina sembra non poter essere detto, almeno al di fuori di un registro discorsivo che, facendo eco alle riflessioni portate avanti in altro contesto da Sossi (2017, p. 23) non si fatica a definire delirante.

In un momento storico in cui è insomma più che mai urgente posizionarsi come cittadini, ricercatori e studiosi di immagini, il recente volume di Mirzoeff To See in the Dark costituisce uno strumento non solo necessario, ma anche capace di indicare una strada che sia al contempo di analisi e di attivismo. Il suo merito maggiore sta forse nell’essere fortemente radicato nell’identità del suo autore, che riassumendo il senso della sua operazione afferma: «I wanted to tell you how and why I’ve seen this catastrophe, so you can see how it relates to your own experience» (Mirzoeff 2025, p. 124). Fra le pagine che compongono questo agguerrito pamphlet, Mirzoeff lascia infatti emergere con coraggio le strutture che hanno contribuito a definire la sua identità di individuo e studioso, evidenziando le connessioni profonde fra memoria individuale, identità collettiva e narrazione politica.

A partire da qui, il monito a guardare la Palestina si nutre del convincimento che oggi Gaza nel suo essere un vero e proprio laboratorio (cfr. anche Loewnstein 2023) in cui le tecnologie politiche di dominio e controllo e le contraddizioni della nostra cultura visuale emergono e si fanno visibili, rappresenti in qualche modo il mondo intero. Indirizzare il nostro sguardo (di singoli individui ma anche di soggetti politici intersezionalmente posizionati) verso le macerie, fissandoci sui corpi straziati significa allora affrontare il paradosso di un visibile che è, ma viene anche politicamente reso, indicibile (Mirzoeff 2025, p. 28).

In queste condizioni, mentre l’algoritmo dei social network su cui i cittadini palestinesi continuano a caricare schegge testimoniali per mostrare al mondo la realtà quotidiana del conflitto, censura sistematicamente la possibilità di farne esperienza, l’invito di Mirzoeff a “guardare nel buio” è solo apparentemente paradossale. Proseguendo un processo di decostruzione dei concetti fondanti dei visual studies intrapreso alcuni anni fa (Mirzoeff 2011) l’autore ci invita ad abitare uno spazio che eccede il cono di luce della sorveglianza integrale, dello sguardo dronificato della guerra contemporanea e, più in generale, di un wight sight, un regime scopico che – nel rendere geometrico e astratto il mondo – lo fa dominabile cancellandovi qualsiasi traccia di umanità. 

L’archeologia dei media ha recentemente cominciato a interrogarsi sulla dimensione politico-coloniale dei concetti di luce e oscurità (Browne 2015; Elcott 2016) e la riflessione di Mirzoeff prosegue questo percorso sottolineando la necessità di allontanarsi dalla luce per abbracciare la causa delle tenebre, di quello spazio di soltanto apparente indistinzione che, se abitato, si rivela pullulante di tragedie, sguardi, vite che continuano a resistere e a raccontarsi (non è questo, d’altronde, l’atto di resistenza della giornalista Bisan Owda e del suo format “It’s Bisan from Gaza and I’m Still Alive”?). Proseguendo una tradizione di attivismo visuale che risale quantomeno alle cosiddette primavere arabe e alla guerra civile siriana, gli abitanti di Gaza continuano a filmare la sistematica distruzione delle loro abitazioni e delle infrastrutture fondamentali, la polverizzazione delle possibilità di esistenza, la violenza di un progetto di sterminio che estende ogni giorno la sua portata.

Eppure, nonostante la difficoltà di far entrare quelle immagini nel nostro campo visivo e di guardarle, nonostante l’accumulo di queste schegge testimoniali si accompagni a quello delle macerie, la loro diffusione è riuscita a costruire un’attenzione senza precedenti su Gaza, una mobilitazione su vasta scala che nelle strade, nelle piazze e nei campus ha portato una massa eterogenea di individui a condividere i medesimi spazi, chiedendo a seconda dei contesti la fine delle ostilità o una revisione dei rapporti con le università israeliane, variamente impiegate nel conflitto. Repressi con violenza dalle forze di polizia, questi tentativi di invenzione di un nuovo spazio politico creano delle zone in cui è collettivamente possibile sottrarsi al white sight per ritrovare insieme possibilità di azione.

Accompagnando il lettore in un percorso intimo e politico, che ripensa alcuni concetti chiave della cultura visuale sottoponendone la tenuta alla prova della più stretta contemporaneità, Mirzoeff riesce a fare degli studi sul visivo uno strumento di resistenza, quando non apertamente di un’interrogazione critica delle storture del presente. Il richiamo a patteggiare per le tenebre è un invito che – nelle parole del poeta palestinese Fady Joudah (in Mirzoeff 2025, p. 46) – risuona così: “To see / what isn’t hard to see / in a world that doesn’t”. 

Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997.
S. Browne, Dark Matters. On the Surveillance of Blackness, Duke University Press, Durham 2015.
N. Elcott, Artificial Darkness. An Obscure History of Modern Art and Media, University of Chicago Press, Chicago-Londra 2016.
A. Loewenstein, The Palestine Laboratory. How Israel Exports the Technology of Occupation Around the World, Verso, Londra 2023.
N. Mirzoeff, The Right to Look. A Counterhistory of Visuality, Duke University Press, Durham 2011.
F. Sossi, Le parole del delirio. Immagini in migrazione, riflessioni sui frantumi, Ombre Corte, Verona 2017. E. Traverso, Gaza davanti alla storia, Laterza, Roma-Bari 2024.
E. Weizman, Spaziocidio. Isarele e l’architettura come strumento di controllo, Mondadori, Milano 2022.

Nicholas Mirzoeff, To See in the Dark. Palestine and Visual Activism Since October 7, Pluto Press, Londra-Las Vegas 2025.

Share