L’occhio giallo e inumano del Tyrannosaurus rex riempie tutto lo schermo. Siamo al cinema, i dinosauri sono estinti da milioni di anni, eppure è difficile negare che siamo inquieti, che se non proprio spaventati sicuramente non ce ne stiamo seduti tranquilli. È solo un film, lo sappiamo bene, ma sentiamo anche molto chiaramente che quello che stiamo vedendo ci emoziona fortemente. È questo il punto in questione: quello che vediamo al cinema o nelle sale di un museo oppure quello che ascoltiamo mentre partecipiamo ad un concerto, è una esperienza soprattutto emotiva e corporea, oppure è prevalentemente un’esperienza – anche se non ce ne rendiamo conto – concettuale? Tornando al tirannosauro, che cos’è, propriamente, che succede? Gli occhi lo vedono oppure gli occhi in qualche modo lo “pensano”? E più in generale: l’esperienza che facciamo quando abbiamo a che fare con l’arte riguarda le emozioni oppure è un’esperienza che riguarda soprattutto il pensiero?

Ne La tirannia delle emozioni (Il Mulino, 2020), Paolo D’Angelo si pone questa domanda a partire da una dettagliatissima ricostruzione del dibattito, molto acceso all’interno dell’estetica contemporanea, sul ruolo delle emozioni nell’esperienza artistica (anche se l’esperienza estetica è più ampia di quella artistica ci permetteremo di non essere troppo rigidi con questa distinzione). In realtà D’Angelo affronta un tema ancora più vasto, che finisce per avere implicazioni anche politiche: in che modo facciamo esperienza del mondo? In che modo, ad esempio, decidiamo di votare per un certo partito politico? E, ancora, attraverso quali operazioni cognitive (sperando appunto che ce ne siano, di questo stiamo parlando) arriviamo a commentare sui social un certo avvenimento di cronaca?

La posta in gioco è la nozione di esperienza: secondo i sostenitori della tesi “emozionale”, oggi di gran moda, l’esperienza è un evento immediato, cioè appunto senza mediazione intellettuale fra il soggetto e l’oggetto di quella stessa esperienza. Secondo questa ipotesi, ad esempio, di fronte ad un fenomeno artistico si scatena, nell’osservatore, una risposta emozionale e corporea largamente incontrollata, spesso attivata da strutture cerebrali (filogeneticamente molto antiche) che sfuggono al controllo cosciente. In questo senso l’arte diventa appunto una questione di emozione. La tesi opposta (che risale almeno all’Estetica trascendentale della Critica della Ragion Pura di Kant), sostiene che l’esperienza è sempre mediata, cioè che fra il soggetto e l’oggetto dell’esperienza non può non interporsi un qualche “pensiero” di ciò di cui si sta facendo esperienza. Questa tesi non nega ovviamente il ruolo dell’emozione, tuttavia sostiene che questo ruolo non esaurisce l’esperienza dell’arte. L’emozione è importante, ma non rappresenta il “cuore” dell’esperienza estetica.

In questi ultimi anni, a sostegno della tesi “emozionalista”, viene spesso addotta la scoperta dei cosiddetti neuroni specchio, una particolare popolazione neuronale che si attiva sia quando facciamo una certa azione, ad esempio quando afferriamo un oggetto, sia quando osserviamo qualcun altro compiere quella stessa azione oppure quando vediamo gli effetti più tipici di quella azione. Di fronte ad un taglio di Fontana (Concetto spaziale, 1959), ad esempio, nel “nostro” cervello si attivano i neuroni che si attiverebbero se stessimo effettivamente tagliando la superficie della tela: per questo è stato plausibilmente sostenuto che la “comprensione” di quest’opera d’arte è affatto incarnata. Come se la stessimo osservando non tanto, o almeno non principalmente, con gli occhi ma soprattutto con il gesto potenziale della mano che potrebbe tagliare quella tela. In generale, secondo questa concezione, il concetto di empatia sarebbe in grado di dare conto di una gran parte delle nostre esperienze estetiche.

Tuttavia questa tesi, che ha il pregio di essere radicale, ha anche il difetto di dire molto poco sul valore propriamente estetico (cioè appunto non emozionale e corporeo) di un’opera d’arte. Poniamo che ad osservare questo “Concetto spaziale” sia uno scimpanzè, un animale con un sistema visivo molto simile a quello umano. È molto probabile che nel suo cervello si attivino gli stessi neuroni specchio che si attivano in quello di un essere umano, ma è altrettanto probabile che mentre per quest’ultimo il taglio è un’opera d’arte (almeno se lo vede in un museo di arte contemporanea, ciò che peraltro rafforza la tesi non emozionale), per l’altro primate è altrettanto probabile se non certo che non lo sarà. Perché ciò che rende “artistico” un taglio di Fontana non è il gesto materiale che squarcia la tela, bensì il senso estetico complessivo di questa operazione. Un senso che ha molto poco a che fare con il taglio materiale. L’attivazione dei neuroni specchio, in sostanza, per quanto forse condizione necessaria, certamente non è sufficiente ad innescare una risposta estetica. In questo senso l’arte rimanda più che agli occhi (e alle mani), ai pensieri che possiamo fare sull’oggetto dell’esperienza. In particolare D’Angelo fa notare che la teoria “emozionale” presuppone sempre un contatto diretto fra soggetto e oggetto dell’esperienza.

Proprio il caso del taglio di Fontana, tuttavia, mette in evidenza che ciò che lo rende “artistico” non è immediatamente presente, al contrario, per apprezzarne il valore estetico bisogna conoscere la storia dell’arte e in generale della cultura moderna, altrimenti non si vedrebbe che una tela squarciata:

I sistemi specchio del nostro cervello sono, eminentemente, sistemi che si attivano in presenza. Ci vuole l’azione, se non c’è l’azione ci vuole il gesto, se non c’è il gesto ci vuole l’oggetto. Si tratta di sistemi che quindi hanno difficoltà a spiegare […] le procedure di decoupling, di disaccoppiamento fra gesto e azione, tra presenza dell’oggetto e rappresentazione dell’oggetto in sua assenza. Eppure questo disaccoppiamento è probabilmente la chiave di molte attività umane, non esclusa proprio l’attività artistica (ivi, p. 71).

Si pensi, per fare un ulteriore esempio di arte incomprensibile in termini corporei ed emozionali diretti, alla “composizione” musicale 4′33″ di John Cage (1952), che come noto consiste di quattro minuti e trentatré secondi di assenza di musica. Questa è arte che sicuramente emoziona e commuove, ma si tratta di un’emozione e di una commozione di secondo livello, nient’affatto immediata, che deve prima necessariamente passare per un pensiero sull’arte e sul senso della performance musicale. In effetti non si tratta di negare il ruolo dell’emozione nell’esperienza artistica, quanto piuttosto di capire che tipo di emozione sia quella estetica. Il caso di Fontana come quello di Cage (e dell’arte moderna in generale, che ha preso congedo dalla riproduzione mimetica della realtà) mostrano con evidenza che l’emozione dell’arte è piena di pensieri e di filosofia, più concettuale che corporea.

Ma, come dicevamo, la tesi di D’Angelo ha una portata ancora più vasta. In effetti il primato delle emozioni rispetto all’esperienza estetica facilmente diventa anche il primato del pensiero immediato rispetto a quello mediato, lento e argomentato: «La presa di distanza, la capacità di non aderire immediatamente agli input dell’ambiente esterno, l’attitudine di creare una sorta di “doppio fondo” esperienziale non sono stravaganze ma requisiti essenziali per lo sviluppo delle capacità umane» (ivi, pp. 71-72). Pensare vuol dire allontanarsi dall’immediatezza dell’esperienza. In effetti che cos’è un’esperienza se non questa capacità di tirarsi fuori dall’immediatezza del corpo? Le emozioni sono importanti, ma nonostante tutte le loro buone ragioni le emozioni non pensano né ragionano. C’è da avere paura di un tempo che, invece, esalta sempre l’immediatezza e l’emozione, perché è un’esortazione a rinunciare a quella distanza senza la quale non c’è pensiero (e senza pensiero non può nemmeno esserci libertà).

C’era una volta, raccontava l’etologo Konrad Lorenz, un pesce che allevava i suoi piccoli all’interno della sua bocca, il luogo più sicuro per proteggerli dai predatori. Allora Lorenz, che amava gli animali ma amava ancora di più la scienza, lasciò perfidamente cadere davanti al pesce affamato delle pallottoline di cibo. La reazione immediata, emotiva, avrebbe spinto il povero pesce a spalancare le fauci per afferrare quanto più cibo potesse. Ma in questo modo insieme al cibo avrebbe inghiottito anche la sua progenie. Il pesce rimase fermo, a lungo, come a ponderare con attenzione il da farsi. «Se ho mai visto un pesce pensare», dice Lorenz, «è stata quella volta». Alla fine il pesce spalanca le fauci, fa uscire i pesciolini-figli, poi mangia il cibo, e quindi li fa rientrare al sicuro. Le emozioni e le reazioni immediate piacciono a tutti, ma questo non basta per dimenticare che il pensiero – anche e soprattutto quello artistico – può cominciare solo dove queste lasciano il posto alla distanza e alla mediazione; anche se può sembrare sgradevole ricordarlo, il corpo non pensa, così come gli occhi, da soli, non vedono.

Riferimenti bibliografici
K. Lorenz, L’anello di Re Salomone, Adelphi, Milano 1989.

P. D’Angelo, La tirannia delle emozioni, Il Mulino, Bologna 2020.

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