Fisher The Weird and the Eerie
Mulholland Drive (Lynch, 2001).

«Viviamo in tempi strani» è l’affermazione con cui si apre HyperNormalisation, documentario trasmesso dalla BBC nel 2016, opera di Curtis, autore spesso citato da Mark Fisher. Il mondo contemporaneo è strano (e inquietante) per via di una sorta di cortocircuito dell’esperienza, spogliata fin dalle avanguardie artistiche della sua pretesa “naturalezza” o immediatezza e consegnata dal postmoderno al suo carattere perennemente mediato. Su questo tratto problematico della nostra (post-)esperienza del mondo (post-)moderno Mark Fisher riflette e scrive lungamente tra il 2009, anno di uscita del suo fulminante Realismo capitalista, e il 2014, anno in cui raccoglie una produzione di saggi che in realtà copre un intero decennio, sotto il titolo Ghosts of My Life. Writings on Depression, Hauntology and Lost Futures. Nel 2016 è infine la volta di The Weird and the Eerie. Prima di cogliere il senso di queste due declinazioni dell’esperienza (weird ed eerie), è utile però ripercorrere il percorso teorico di Fisher e il suo itinerario intellettuale dai tempi dell’Università di Warwick, nelle West Midlands.

Alla fine degli anni novanta, Fisher sta preparando a Warwick la propria tesi di dottorato sul “materialismo gotico e la theory fiction cibernetica”, mentre il Regno Unito si è appena lasciato alle spalle, non senza drammatiche conseguenze, il decennio in cui il capitalismo si è autoproclamato sistema senza alternative, per bocca del primo ministro Margaret Thatcher. In quella temperie culturale, tra l’accelerazione imposta dalle nuove tecnologie e gli esiti nichilistici del Novecento, in seno al dipartimento di Filosofia dell’Università di Warwick nasce, “dentro e contro” per così dire, un’unità di ricerca proiettata verso i posthuman studies e la rivoluzione digitale: la CCRU (Cybernetic Culture Research Unit). Ci interessa qui però ricostruire, grazie anche all’attenta postfazione di Gianluca Didino a The Weird and the Eerie (fresco di pubblicazione in Italia per minimum fax), la genealogia sotterranea della CCRU.

Tra i “padri fondatori”, non solo della CCRU, ma anche della corrente accelerazionista, ritroviamo Nick Land, un nietzschiano dalla marcata eccentricità, entusiasta estimatore della serie TV True Detective: la filiazione nietzschiana di Land, contaminata dal situazionismo di Plant, si intreccia a Warwick con le inquiete e promettenti prospettive teoriche di Fisher, dell’ultranichilista Brassier, del teorico e filmmaker Eshun. Il campo si allarga ulteriormente in ragione degli interessi musicali di Fisher per la scena post-punk e rave anglosassone, di cui The Weird and the Eerie dà tra l’altro conto, che spingono il critico musicale Reynolds (Retromania, volume del 2011 pubblicato in Italia sempre per minimum fax nel 2017) a un’intensa collaborazione con l’autore di Realismo capitalista. Non si dimentichi infatti l’ingente produzione critica di Fisher per il blog da lui fondato, k-punk, fonte d’ispirazione, tra gli altri, per  Srnicek, autore del manifesto accelerazionista (2013) con Alex Williams.

Ma tra i “maestri del sospetto” in voga a Warwick, a Nietzsche va aggiunto il Freud di Al di là del principio del piacere. Si potrebbe affermare che dietro la spinta teorica della CCRU e dell’accelerazionismo (di quello “destrorso” di Land o di quello orientato a sinistra di Srnicek e Williams) vi sia infatti all’opera la pulsione di morte, in particolar modo nell’interpretazione dell’impasto pulsionale tra Eros e Thanatos da parte di Lacan in termini di jouissance (“godimento”). Il godimento come ponte verso il Reale, poi ripreso con diversi esiti ne L’anti-Edipo (1972) di Deleuze e Guattari e nell’Economia libidinale (1974) di Lyotard, fornisce il carburante libidico alla macchina accelerazionista. La tesi di fondo degli accelerazionisti vede infatti nel desiderio spinto al limite la chiave per la distruzione del capitalismo, entrato in una spirale vorticosa di consumo acefalo e di godimento senza piacere.

L’esperienza della CCRU finisce, in seguito al taglio dei fondi a Warwick alla ricerca sulle culture cibernetiche. Ad ogni modo, la CCRU si riconosce dai frutti: l’accelerazionismo, in primo luogo, col suo rifiuto del postmodernismo come logica culturale del tardo capitalismo, secondo la definizione di Jameson (1991), ma anche l’idea di “fine del futuro”, annunciata da Fisher e Reynolds, un avvenire sostituito da una retromania paralizzante, dalla persistenza del passato sotto forma di fantasmi, creature “hauntologiche” di un altro volume di Fisher, il già citato Ghosts of My Life (2014, di prossima uscita sempre per minimum fax), che opera una torsione sugli spettri di Derrida. La hauntology del presente “fuor di sesto”, per riprendere il titolo di un romanzo di Dick amato da Fisher, è una casa infestata percorsa da creature fantasmatiche senza direzione, dotata di porte che sono soglie verso altrove weird, inumani ma non meravigliosi, in cui gli unici suoni udibili sono presenze acusmatiche, grida e stridori eerie senza una fonte identificabile. Di qui l’interpretazione in chiave di anedonia depressiva, di “godimento senza piacere”, della “fine del futuro” da parte di Fisher.

A questo punto è possibile riprendere le fila del discorso attorno a The Weird and the Eerie. Ricordando l’origine freudiana dello strano e dell’inquietante, Fisher critica il concetto di “perturbante” (Unheimlich) freudiano a partire dalla sua traduzione inglese con uncanny (misterioso), laddove il «termine inglese che descrive meglio il senso attribuito da Freud è invece unhomely (non familiare, estraneo)» (Fisher 2018, p. 8). Per Fisher, «l’unheimlich di Freud riguarda lo strano all’interno del familiare, lo stranamente familiare» (ivi, p. 9), finendo per ricondurre l’esterno all’interno, l’anomalo al noto. Pur riconoscendo a Freud la capacità di operare un doppio movimento di straniamento all’interno del noto e di familiarizzazione (edipizzazione) dell’ignoto, Fisher porta il perturbante su un versante più affine al Reale che al simbolico, intendendo con ciò il Reale della pulsione che de-umanizza l’inconscio e de-mondifica il mondo. Disumanizzare l’inconscio significa condurlo verso una realtà aliena, “estima” direbbe Lacan, con le parole del XVI Seminario, Da un Altro all’altro: l’estimo è «ciò che ci è più prossimo, [pur] essendo completamente esterno a noi» (Lacan 1968-1969, p. 224).

Il mondo perturbante, dove l’interno è divenuto deleuzianamente una piega o una invaginatura dell’esterno, è quello dove l’io non è più padrone in casa propria. Già nel Seminario X sull’angoscia (1962-1963), Lacan riconsidera la nozione freudiana di Unheimlichkeit, associando la domanda sul desiderio “misterioso” dell’Altro alla figura perturbante della mantide, alla volontà di godimento dell’Altro, che produce un’irruzione del Reale foriera di angoscia. La libido che riemerge dal Reale è fantasma dell’oggetto perduto, oggetto weird rinvenuto nel nostro mondo come la chiave blu in Mulholland Drive (Lynch, 2001), è presenza eerie di ciò che non dovrebbe esserci. L’incontro con l’immagine straniante è per ciascuno il rispecchiamento con il proprio doppio incorporeo, la rivelazione del fuori che abita il soggetto dall’esterno. È in questa cornice freudo-lacaniana che Fisher inserisce le categorie estetico-psicoanalitiche di weird e eerie, due modalità dell’esperienza centrali per comprendere l’ipermodernità, operando però in senso contrario rispetto alla spinta freudiana: dall’interno verso l’esterno.

Se «il weird è ciò che è fuori posto» (Fisher 2018, p. 10), uno straniamento del familiare che sovverte le coordinate abituali del mondo determinado “storie ingarbugliate”, combinando «due o più elementi che non appartengono allo stesso luogo» (ibidem), l’eerie concerne la crisi dell’agentività, svelando il vuoto (amnesico) al centro del soggetto: «Perché qui c’è qualcosa quando non dovrebbe esserci niente? Perché qui non c’è niente quando dovrebbe esserci qualcosa?». In entrambi i casi, si tratta di un distacco dall’uso ordinario delle facoltà, che non coincide con il fantasy, il fantascientifico o l’horror, ma che attraversa ciascuna di queste dimensioni.

Il weird, in particolare, è al cuore, secondo Fisher, della produzione di Lovecraft, dal momento che le sue storie mettono in scena l’attraversamento da un New England realistico a un mondo weird “reale” nel senso lacaniano del termine: «Il weird […] è notevole per il fatto che apre un passaggio da questo mondo verso altri» (ivi, p. 22). I mondi si intersecano, si “ingarbugliano”, come nella serie televisiva Lost, o nei romanzi della Trilogia dell’Area X di VanderMeer. Il passaggio tra i mondi è garantito da territori liminali, soglie, punti di attraversamento, che ricordano i dispositivi dei romanzi di Haruki Murakami (Dance Dance Dance, La fine del mondo e il paese delle meraviglie), che non mancano d’altro canto di momenti eerie, come l’esperienza di “incontro ravvicinato” con entità aliene in Kafka sulla spiaggia.

L’esperienza weird viene rinvenuta da Fisher in tutte quelle produzioni letterarie, cinematografiche, televisive in cui si opera un contatto tra mondi incommensurabili/incompossibili: «Il weird de-naturalizza tutti i mondi, mettendo in mostra la loro instabilità, la loro apertura verso l’esterno» (ivi, p. 33). La demondificazione (unworldling), che per altri versi è anche una “disneyficazione” o una “giapponesizzazione” del mondo, è massimamente all’opera laddove il confine tra originale, copia e simulacro, tra mondi e sottomondi, rivela la sua provvisorietà e inconsistenza, come nella produzione televisiva Il mondo sul filo di Fassbinder, nel romanzo Tempo fuor di sesto di Dick, nel Lynch ultravisionario di Mulholland Drive e Inland Empire.

D’altro canto, la dimensione eerie rivela il limite della nostra nozione di agentività, denunciando i fallimenti dell’assenza e della presenza. Qualcosa è presente dove non dovrebbe esserci niente: l’urlo anomalo, il grido inquietante (eerie cry) di un uccello che denuncia un’intenzionalità, forse malevola, che non assoceremmo di norma al volatile. Oppure, non c’è niente dove dovrebbe esserci qualcosa, come a bordo del brigantino abbandonato Marie Celeste, un caso inquietante di “nave fantasma”. Sono eerie nel primo senso le storie di du Maurier, e nel secondo senso quelle di Priest.

Il senso di eeriness è quello di una presenza aliena, di qualcosa che spoglia il soggetto della sua identità: l’incontro con “l’alieno che dunque siamo”, con l’alieno tra di noi, o con ciò che in noi è più di noi, il nostro inconscio impersonale e inumano, è ritrovato acutamente da Fisher nelle produzioni cinematografiche di Tarkovskij (Solaris, Stalker), Kubrick (2001: Odissea nello spazio, Shining), e nel più recente Under the Skin di Glazer. Come l’aliena cannibalica interpretata dalla Johansson nel film di Glazer, ci aggiriamo nella contemporaneità come ghosts in the machine, fantasmi abitati da una domanda senza risposta: chi sogna il sogno in cui vivo se non c’è un sognatore? “No hay banda”. Un minaccioso senso di eeriness rimane, aleggia come un presagio sul mondo ipermoderno che Fisher ha abbandonato.

Riferimenti bibliografici
M. Fisher, The Weird and the Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, minimum fax, Roma 2018.
T. Morton, Iperoggetti, NERO, Roma 2018.
S. Freud, Il perturbante, in Id., Opere. Vol. IX. 1917-1923, Bollati Boringhieri, Torino 1977.
J. Lacan, Il Seminario. Libro X. L’angoscia (1962-1963), Einaudi, Torino 2007.

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