Ci sono film chiusi su se stessi, e film che si aprono direttamente al cinema, in definitiva al tempo. Che entra direttamente nelle immagini e si inscrive nei movimenti. The Wasteland di Ahmad Barhami è uno di questi (come lo è molto cinema iraniano). Al centro del film c’è una piccola fabbrica di mattoni in dismissione, collocata in una zona desertica e abbandonata dell’Iran. Il film inizia con il discorso del proprietario che constata davanti ai pochi nuclei familiari che lì lavorano e abitano da anni lo stato di crisi, che porterà alla prossima chiusura del mattonificio. Questo discorso si ripeterà più volte durante il film (e in ogni ripetizione c’è l’aggiunta di un pezzo in più), inquadrato da punti di vista diversi che rimandano ai destini individuali e familiari coinvolti. Tra questi destini, già complessi per contrasti e rivalità etniche e religiose, gelosie, interdizione a matrimoni, emerge quello del sorvegliante Loftollah, nato nella fabbrica, dove vive da 40 anni. La sua vita coincide con quella della fabbrica stessa: l’effetto della chiusura sarà per lui più forte che per altri. Anche perché è innamorato della bella vedova che lì vive, che è l’amante del proprietario, e che con la chiusura del mattonificio sarà destinato a non vedere più.
Il ritorno per ben cinque volte del discorso del proprietario, che riavvolge il film su se stesso, inscrive il tempo nella forma di una ricorsività che non serve a sciogliere nessun vero nodo d’intreccio. Non ce ne sono. Non ci sono enigmi, verità da scoprire, e i diversi personaggi non gettano nuova luce su ciò che è accaduto. Di fatto non accade nulla se non gli effetti sui destini individuali e sociali della imminente chiusura della fabbrica. E quando ad uno ad uno i pochi personaggi del film si presentano dal proprietario sottoponendogli i loro problemi, riceveranno promesse, inviti alla pazienza, e rassicurazioni sul pagamento dei loro salari arretrati.
È l’esercizio di un potere placido che rassicura, ma di fatto ignora. Che pone tra sé e gli altri la figura del sorvegliante a cui tutti devono fare riferimento. E gli operai lo guardano inerti, segnati da una condizione di passività che non permette loro di intervenire in alcun modo se non chiedendo un aiuto. Non hanno altra strada che affidarsi al padrone.
La macchina da presa invece costruisce in questa dismissione un mondo che sta finendo, alternando carrellate lente e punti di vista immobili. I movimenti di macchina prescindono dai personaggi, che si muovono più velocemente rispetto alla lentezza o alla fissità dello sguardo del regista.
Si tratta di mettere in forma la fine di un mondo desolato, fatto di mattoni, di muri, di terra, di piccole case dove vivono gli operai, e della stanza del padrone, dove quest’ultimo incontra a turno tutti gli operai. Un mondo fatto anche di dialoghi, ricorrenti nei contenuti (con al centro sempre il padrone, i suoi atti e la comprensione verso di essi), e di gesti che ritornano, come quello a fine cena, quando ognuno dei capifamiglia nelle singole case si stende a terra per dormire e si copre con un lenzuolo bianco.
Il ritornare di tutto senza nulla aggiungere è il riconoscimento di una condizione esistenziale riaffermata in sé, senza possibile modifica, desertificata come il paesaggio. L’azione è impossibile, resta una condizione di presenza al mondo segnata da fatica, dolore, ma anche accettazione.
E questa condizione viene affrontata con uno sguardo tangenziale, né aderente né distante, ma coincidente con il carattere allo stesso tempo continuo e ricorsivo della vita. È esemplare al proposito una sequenza nella quale vengono inquadrate le gambe in movimento di tutte le persone che abbandonano il mattonificio. Vediamo solo le gambe muoversi. Il punto di vista cattura una prospettiva immotivata, dove lo sguardo afferma la sua autonomia – ma non totale – dai personaggi e da ciò che accade.
Il finale mostra, negandolo alla vista con l’oscuramento dell’immagine e la cancellazione della luce, come il più sofferente dei personaggi, il sorvegliante, con il dissolversi del suo mondo (la fabbrica) e l’allontanarsi della donna desiderata (la giovane vedova), decida di dissolversi egli stesso, murandosi vivo con i mattoni della fabbrica. Il muro pian piano si alza, circonda Loftollah, toglie ogni luce e dunque ogni possibile immagine. Il nero chiude il film.
Alla potenza della forma, che prende corpo in un bianco e nero intenso, è affidato il compito di dare espressione a questo vero e proprio sentimento del mondo e del tempo. Null’altro che la vita stessa sottomessa faticosamente al lavoro e ad un potere mai percepito come tale è in gioco in questo film. Questa vita dolente – continua e ricorrente –, questa condizione ontologica frutto di fatto di dinamiche sociali e di pratiche di potere, è ciò che un film notevole come The Wasteland è stato capace di mettere in immagine in forma molto originale.
The Wasteland. Regia: Ahmad Bahrami; sceneggiatura: Ahmad Bahrami; fotografia: Masoud Amini Tirani; montaggio: Sara Yavari; musiche: Foad Ghahremani; interpreti: Ali Bagheri, Farrokh Nemati, Mahdieh Nassaj, Touraj Alvand, Majid Farhang; produzione: Saeed Bashiri; origine: Iran; durata: 103’.