In uno studio divenuto classico sul rapporto fra cinema e immaginario culturale americano degli anni ottanta, Susan Jeffords (1994) individuava la cifra identitaria della decade nello spazio tracciato da due visioni complementari e alternative della corporeità: da una parte quello che definiva hard body, una rappresentazione machista e muscolare capace di tratteggiare un’intera ideologia della mascolinità; dall’altra l’immagine di corpi malati, feriti, mutanti così ben raccontati proprio in quegli anni da Cronenberg, Carpenter, Yuzna e molti altri.

Risulta estremamente difficile non tornare con la mente alle pagine di Jeffords di fronte a The Substance, ultimo film di Coralie Fargeat, mostrato alla Festa di Roma (dopo la presentazione a Cannes), che riprende almeno in parte le idee di un corto del 2014 (Reality+), spingendole però ad un nuovo livello di complessità. Dopo l’acclamato Revenge (2017), sembra che la regista abbia intrapreso una vera e propria opera di riattraversamento delle forme del cinema estremo, decidendo – dopo aver affrontato il rape&revenge, il filone forse più problematico per qualsiasi interpretazione femminista del genere – di dedicarsi ad una vera e propria operazione di analisi delle possibilità del body horror.

Gli esempi di un ritorno di interesse per il filone non sono mancati negli ultimi anni (si pensi a Titane di Julia Ducournau e, ovviamente, a Crimes of the Future di Cronenberg), ma l’intenzione di Fargeat sembra essere soprattutto quella di verificare quali possibilità esistano per un tipo di cinema che, nel volgere di una decade culminata significativamente con il rovesciamento (letterale) del corpo in Society, sembrava aver esaurito la propria fecondità. Per rispondere a questa domanda, la regista sceglie di mettere al centro della scena il corpo di una straordinaria Demi Moore, che esibisce le contraddizioni di un divismo in età matura con estrema efficacia (qualcosa di simile, pur in altro contesto, è stato fatto recentemente anche da Nicole Kidman con Babygirl).

Il film, costruito con grande eleganza sul contrasto fra purezza delle forme dell’immaginario modernista e medicale ed eccesso grottesco del cibo e del sangue, ruota attorno ad un interrogativo teorico estremamente seducente: è possibile separare in due corpi una medesima soggettività, lasciando che le sue due incarnazioni si alternino con perfetto equilibrio? Quale rapporto si crea fra Matrice e Altro Sé, soprattutto nel momento in cui i partecipanti di questo gioco pretendono di avere più tempo a disposizione, sottraendolo all’Altro (e quindi a sé stessi)?

È forse in questo aspetto che si annida la vera sfida che The Substance pone alla tradizione del body horror, che più che alla sola fenomenologia della mutazione, è sempre stato interessato ad indagare la complessa e mai del tutto pacificata relazione fra corpo e soggettività, spinta spesso ai suoi limiti estremi. Così, se è vero che soprattutto nel finale diventano evidenti una serie di citazioni colte ai classici del genere (da La Cosa a From Beyond – Terrore dall’ignoto, ma sembra esserci spazio anche per la rielaborazione dell’immaginario lovecraftiano messa in atto da Miyazaki in Bloodborne), è soprattutto per la sua capacità di risalire al cuore dell’interrogazione profonda posta da questo filone che l’operazione di Fargeat risulta interessante.

Se è senza dubbio vero che, come è stato da più parti notato, il film ragiona sull’impulso narcisistico e sulla ricerca ossessiva della bellezza e della gioventù amplificata dal sistema dei media, ridurre The Substance ad una riflessione su questo tema già ampiamente battuto rischia forse di banalizzarne le possibilità interpretative. Lasciando che l’imperativo finale legato all’uso della sostanza (“Remember: You Are One”) risuoni per tutto lo svolgimento del film, emerge con forza l’idea che la vera questione cruciale abbia piuttosto a che vedere con il modo in cui l’identità personale si risignifica quando esiste ad intermittenza in due corpi separati.

A ben pensarci, The Substance ci pone di fronte ad una situazione che è in qualche modo speculare a quella descritta da Cronenberg ne La mosca: se lì il punto era rendere il corpo un terreno di contesa fra due entità destinate a ibridarsi sino all’indistinzione (Stephen Brundle e l’insetto che diventano Brundlefly), qui è piuttosto l’identità del soggetto nel suo ancoraggio al corpo a venir messa in questione dalla possibilità, garantita dalla sostanza, di generare una copia migliore di noi, una sorta di Ultracorpo destinato a sostituirci. La questione è peraltro ulteriormente complicata dal fatto che, se almeno inizialmente l’Altro Sé sembra accettare i termini di questo contratto sociale a due, ben presto la sensuale e giovane Sue (alter-ego di Elizabeth Sparkle, attrice sul viale del tramonto ormai senza lavoro) scopre il piacere di prolungare il suo tempo di vita a spese di quella che, da Matrice, si scopre relegata a mero veicolo di sopravvivenza.

Se però in Cronenberg la trasformazione del corpo prendeva le sembianze di una malattia che ha spesso fatto parlare, a prescindere dalle intenzioni autoriali, di una sorta di messa in immagine dell’epidemia di AIDS, Fargeat ci parla piuttosto di un corpo che tende ad autocannibalizzarsi, sottraendo all’Altro (ma in ultima misura al Sé) qualsiasi possibilità di sopravvivenza. Non c’è contaminazione causata da agenti patogeni in gioco (come è sempre più comune nell’horror di questi anni, anche in relazione allo shock pandemico, ancora tutto da elaborare), ma una sorta di fagocitosi esasperata, che più si ripiega su sé stessa più genera mostruosità corporee (come quando Sue, da Altro Sé pretende di diventare a sua volta Matrice).

Nel mostrarci la distanza abissale, eppure così sottile, che separa l’immagine plastificata del (Ultra)corpo plastificato dalla minaccia della sua dissoluzione (tutto il film sembra parlarci, in qualche modo, della minaccia di una corporeità che – letteralmente – non si tiene più insieme), Fargeat accompagna lo spettatore in un vero e proprio viaggio ai confini dell’incorporazione dell’identità, in un film che è capace di accogliere e rielaborare l’eredità del body horror per affrontare le contraddizioni del presente, riuscendo però a non incorrere nel rischio della semplificazione didascalica.

Riferimenti bibliografici
S. Jeffords, Hard Bodies. Hollywood Masculinity in the Reagan Era, Rutgers University Press, New Brunswick 1994.
E. Mathijs, AIDS References in the Critical Reception of David Cronenberg: It May Not Be Such a Bad Disease After All, in “Cinema Journal”, vol. 42 n. 4, 2003.

The Substance. Regia, sceneggiatura: Coralie Fargeat; fotografia: Benjamin Kracun; montaggio: Jérôme Eltabet, Coralie Fargeat, Valentin Féron; effetti speciali: Pierre-Olivier Persin; musiche: Raffertie; scenografia: Stanislas Reydellet; costumi: Emmanuelle Youchnovski; produttori: Tim Bevan, Eric Fellner, Coralie Fargeat; produttori esecutivi: Alexandra Loewy, Nicolas Royer; produzione: Working Title Films, A Good Story Production; distribuzione: I Wonder Pictures; origine: Regno Unito; durata: 140’; anno: 2024.

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