La fotografia post mortem è una pratica che si è sviluppata a partire dall’età vittoriana e che si è protratta quasi fino alla metà del Novecento. Fotografare il morto era una sorta di mummificazione visiva operata per mezzo del dispositivo fotografico. Nadar, ad esempio, fotografò la salma di Victor Hugo con un celebre scatto del 1885. Ma anche al di là della fotografia, artisti e pittori hanno elaborato il lutto facendo post mortem l’ultimo ritratto della moglie o di un amico o di un bambino a loro caro. Tra i mourning portrait più celebri ci sono quello dedicato da Monet alla moglie Camille, quello di Klimt su una giovane suicida, con la testa poggiata sul cuscino del catafalco e circondata da fiori come una moderna Ofelia, o ancora quello di Virginia Clemm, la giovane moglie di Edgar Allan Poe morta di tubercolosi quando non aveva ancora compiuto venticinque anni, e ritratta da un anonimo pittore (pagato dagli amici di Poe) in un atteggiamento di totale abbandono, con la testa reclinata sulla spalla.

In tutti questi casi, che si tratti di ritratti pittorici o fotografici, l’intento è quello – per dirla alla Bazin – di conservare l’essere mediante l’apparire. Di eternare in imago la persona che scompare. Anche David Cronenberg nel suo ultimo film lavora – con la consueta acutezza e complessità teorica – sul rapporto fra immagine e morte. In The Shrouds (sudari, letteralmente) immagina infatti che un ricco produttore di video industriali (un Vincent Cassel che è anche fisicamente, perfino nel taglio di capelli e nella postura, l’alter ego di Cronenberg), rimasto vedovo, metta a punto una tecnologia audiovisiva (GraveTech) che gli consente di accedere al corpo della donna che ha amato anche durante la sua progressiva, inevitabile decomposizione.

Karsh – questo il nome del personaggio – costruisce cioè una necropoli elegantissima e ipertecnologica in cui i cadaveri vengono avvolti in speciali sudari collegati a micro-videocamere che consentono attraverso piccoli monitor di seguire in diretta, ora per ora, cosa accade sottoterra, e di osservare la putrefazione del corpo e la sua progressiva riduzione a scheletro. Un po’ l’opposto di quanto Cronenberg aveva fatto con l’installazione dedicata alle Cere anatomiche della Specola di Firenze nella recente installazione esposta alla Fondazione Prada: là il cinema riproiettava la vita e il movimento su corpi inorganici, qui filma invece la transizione verso l’inorganico di corpi che stanno cessando o hanno appena cessato di essere vivi.

Al posto delle vecchie foto cimiteriali (“immagini orribili, sbiadite, macchiate dalle mosche”, si dice nel film), Karsh colloca sulle lapidi del suo cimitero un piccolo monitor che mostra il dopo-morte in diretta. Ma attenzione: non sono videocamere che registrano, non è cinema che conserva e rende eterno ciò che è destinato a scomparire (di nuovo il baziniano “complesso della mummia”, il cinema come imbalsamatore del visibile), piuttosto è tele-visione. Visione a distanza in diretta. Voyeurismo necrofilo. Desiderio scopico bulimico. Con la possibilità di effettuare anche esplorazioni grandangolari e possibili zoom sui dettagli. Il fruitore è anche operatore e regista di ciò che vede in quel preciso momento.

La tecnologia messa a punto da Karsh è disponibile solo per visioni private. Solo chi amava il defunto può aver accesso alla visione di ciò che accade dentro al sudario sottoterra. Cronenberg è lontanissimo dal rendere disponibile a tutti la visione del dopo-morte, o di socializzarla. Alla tecnologia di Karsh può accedere solo chi ama ma anche e soprattutto – dettaglio non trascurabile – chi paga: perché quella tecnologia, pensata per garantire l‘illusione di non separarsi mai – almeno visivamente – dal corpo che si è amato, è in vendita sul mercato delle immagini (e dei ricordi, e delle emozioni). Anche la manutenzione del dolore e l’elaborazione del lutto, insomma, stanno dentro la logica del mercato capitalista.

The Shrouds è quasi una confessione. Malinconica, intima, autobiografica, a tratti perfino struggente. Mai in precedenza Cronenberg si era messo a nudo come in questo suo film. Segnato dal trauma della morte della moglie Carolyn (scomparsa nel 2017) e della sorella Denise (sua costumista da La mosca a Maps of the Stars, scomparsa nel 2020), Cronenberg arriva a The Shrouds dopo aver girato il corto The Death of David Cronenberg, dove fa quasi il mourning portrait di se stesso: cinquantasei minuti essenziali, commoventi e terribili, in cui il regista abbraccia il suo cadavere. Quasi a volerlo conservare. Come per prendersi cura di sé dopo la fine del sé. O per conservare quel tanto di sé che sta per andar via, o è appena andato via. The Shrouds è il passo successivo: ancora la morte. La morte in diretta. La morte trasferita dal non visibile al visibile. Ma è una sfida alla morte o una resa?

Karsh dice a più riprese di aver messo a punto la Grave Tech per non doversi staccare dall’adorato corpo della moglie defunta: “Ho vissuto nel corpo di lei. Era l’unico posto in cui ero vivo. Il suo corpo era il mondo. Il significato e lo scopo del mondo”.  La morte, portandogli via quel corpo, ha cancellato anche il significato e lo scopo del mondo. Melò, ancora e sempre. Storie d’amore impossibili. Ma anche traiettorie di fuga dentro l’impossibilità dell’amore. E dentro gli infiniti interdetti ad amare. Come in tutto il cinema di Cronenberg: dove il tragitto dell’uomo verso il proprio oggetto di desiderio è ostacolato e inibito di volta in volta da ciò che l’uomo sta diventando (l’insetto di La mosca), da ciò che non riesce a smettere di essere (il sosia di Inseparabili), dal rifiuto di prendere atto della distanza che separa la propria idea dell’Altro da ciò che l’Altro effettivamente è (M.Butterfly) o infine – molto più radicalmente – dalla sparizione letale del corpo defunto.

Ma è sufficiente renderlo perennemente visibile, l’oggetto del desiderio, per garantire la manutenzione dell’amore? O non c’è qui anche un’implicita confessione sull’insufficienza dello sguardo? Forse, in un mondo dove tutto diventa immagine, il tatto serve più della vista: non a caso, in The Shrouds, la donna cieca che chiede a Karsh di toccare il suo volto, e di accarezzarlo, di fatto lo conosce, lo sente e lo “possiede” più di quanto non possa fare lui con tutta la potenza delle sue tecnologie audiovisive. The Shrouds può essere letto dunque anche come un requiem per il cinema, inefficace nella sua manutenzione di chi muore, rispetto all’hic et nunc della putrefazione in diretta garantita da medium televisivo? Forse. Solo forse. Perché qualcosa non torna.

La moglie scomparsa, ad esempio, si chiama – non a caso – Rebecca Gelerent. Vediamo il suo nome nitidamente inciso sulla lapide della necropoli. Ora: come ben sa ogni appassionato estimatore, i nomi nel cinema di Cronenberg sono sempre indizi o sintomi non trascurabili (ricordate il prof. O’blivion di Videodrome, i fratelli Mantle – ma si legge Mental – di Inseparabili?). Rebecca, allora, non può che rinviare alla prima moglie dell’omonimo film di Hitchcock, a sua volta defunta come lo è la moglie di Karsh, e destinata a essere sostituita da una seconda donna che nel caso di The Shrouds è –guarda caso – la sorella gemella di Rebecca.

Come in Vertigo, ma anche in Psycho (due altri grandi film necrofili) c’è una donna che vive due volte, e ritorna, e prende il posto della scomparsa, tanto che nella lunga scena di sesso fra Karsh e la gemella della moglie – la scena di sesso più forte e intensa che Cronenberg abbia mai girato, stavolta davvero solo con due corpi nudi, uno sull’altro e uno nell’altro, senza tecnologie invasive, senza le fantasie metallico-incidentali alla  Crash, solo la carne e nient’altro – lei si eccita chiedendo continuamente a lui se sta immaginando di essere con l’altra, e se riesce a far rivivere l’altra in lei. Vertigo, allo stato puro. Quanto al cognome Gelerent non può non richiamare per assonanza il personaggio di Allegra Geller, la protagonista di eXistenZ, a suggerire forse un’analogia non superficiale fra le due opere: là Cronenberg lavorava sul confine indecidibile fra realtà e simulazione videoludica, fra mondo “reale” e mondo “simulato”, qui ci porta invece sul confine fra via e morte, fra visione e cecità, e ci immerge in quello che Walter Benjamin definirebbe forse l’inconscio ottico del nostro tempo, quello che fluttua impalpabile (il tatto, ancora il tatto, il bisogno di toccare senza rompere, senza infrangere…!) nelle bellissime immagini ectoplasmatiche, epiteliali, ecografiche, trasparenti e delicatissime, dei titoli di testa.

C’è tanto cinema, dunque, in The Shrouds. Cinema che come un virus si insinua ovunque, e fluttua a sua volta e si infila anche là dove è al lavoro la diretta televisiva della morte. Perché è il cinema che ce la fa vedere. E senza cinema non vedremmo neppure la potenza del tatto al lavoro. Ma c’è ancora dell’altro: molti hanno letto la seconda parte del film – dopo che qualcuno ha profanato il cimitero di Karsh e ha sabotato alcune tombe – come una deriva complottista. Chi è il responsabile del sabotaggio? Ecoterroristi che non vogliono che si immetta tecnologia sottoterra? Multinazionali che vogliono ottenere il controllo dei dati del DNA dei cadaveri? Hacker della videosorveglianza al soldo dei servizi segreti russi o cinesi? False piste. Cibo fast food per immaginazioni sovreccitate.

In realtà, tutto gioca ancora una volta intorno ai corpi, al loro possesso, alla gelosia come rivendicazione di proprietà privata sul corpo amato, tanto da vivo quanto da morto. Ma anche all’incapacità di accettare la propria incapacità continua ad amare un corpo che è stato anche di un altro. Sulle note mai così ipnotiche della partitura di Howard Shore, Cronenberg ci regala uno dei suoi film più complessi e stratificati, più sentiti ed inquieti. Con uno dei finali più aperti di tutto il suo cinema. Chi c’è nella tomba accanto a Rebecca? C’è il corpo del suo amante? Ma poi: è un corpo o una “immagine virtuale”? O – come suggerisce la gemella di Rebecca, evocando uno dei paradossi della meccanica quantistica – è come il “gatto di Schrödinger”, che può essere contemporaneamente vivo o morto, indifferentemente in uno stato o nell’altro? Che il cinema sia l’analogo visuale del “gatto di Schrödinger”? Un dispositivo che ci mostra qualcosa che c’è e al tempo stesso non c’è, e che sa fa vivere fantasmi ricordi e desideri accanto ai corpi vivi? Chi c’è accanto a Karsh sull’aereo che vola verso Budapest? Ancora e sempre e solo Rebecca, anche se un attimo prima sembrava un’altra?

In questo finale sospeso, Cronenberg ribadisce una volta di più l’essenza della sua visione: non ci innamoriamo mai di lui o di lei, ma dell’idea che ci siamo fatti di lui o di lei. Baciando quel corpo mutilato e cicatrizzato che gli sta seduto accanto – così incredibilmente ancora vivo – Karsh ci ricorda che tutti, in fondo, ci ritroviamo ad amare sempre e nient’altro che i nostri fantasmi.

The Shrouds. Regia, sceneggiatura: David Cronenberg; fotografia: Douglas Koch; montaggio: Christopher Donaldson; musiche: Howard Shore; interpreti: Vincent Cassel, Diane Kruger, Guy Pearce, Sandrine Holt; produzione: SBS Productions, Prospero Pictures, Saint Laurent Productions; distribuzione: Europictures; origine: Canada, Francia; durata: 116′; anno: 2024.

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