Da un lato le cere anatomiche della Specola di Firenze che riproducono meticolosamente l’anatomia del corpo umano, rendendolo inorganico e inanimato. Prendono il corpo, quelle cere, e lo trasformano in “cosa”. Lo duplicano reificandolo. Lo rendono eterno devitalizzandolo. Dall’altro lato, lo sguardo non più anatomico ma estetico ed estatico di un regista come David Cronenberg, che prende quelle cere anatomiche settecentesche, quelle figure femminili a grandezza naturale, adagiate supine su drappi damascati e materassini di seta, e cerca di rianimarle, di farle tornare (o sembrare…) vive, grazie allo sguardo dinamico del cinema. Il corpo femminile – il suo fantasma – sta lì, al centro. Tirato verso l’immobilità delle cere da un lato e verso il soffio vitale delle immagini in movimento dall’altro. Doppio movimento, insomma: immobilizzare ciò che è (è stato…) vivo, movimentare ciò che è (è stato…) immobilizzato.

Il senso della mostra Cere anatomiche. La Specola di Firenze. David Cronenberg, alla Fondazione Prada di Milano, è in prima istanza qui: nel costruire una doppia spinta attorno al feticcio del corpo femminile – alla sua imprendibilità, alla sua introflessione, alla sua misteriosità – passando per l’ossessione della riproducibilità anatomica per poi riaffidare i corpi/simulacri anatomicamente perfetti alla soggettività e alla sensibilità di uno sguardo che esplorandoli li rianima e li sottrae alla staticità delle cere rendendoli ancora una volta dinamici e vivi.

Le quattro “Veneri” provenienti dalla Specola fiorentina ed esposte in mostra, sotto teca, sono impressionanti non solo per la loro stupefacente verosimiglianza, ma anche per la morbosa sensualità che emana da questi corpi traslucidi, con l’incarnato leggermente ambrato, e con l’espressione languida del viso sospesa fra eros e thanatos, ma anche fra estasi e dolore, con una somiglianza abbastanza evidente tanto nel volto quanto nella postura del corpo – hanno notato in molti – con la statua del Bernini dedicata all’estasi di Santa Teresa d’Avila e realizzata quasi un secolo prima delle cere anatomiche della Specola fiorentina.

Fra le quattro esposte a Fondazione Prada, più di tutte attrae lo sguardo la Venere detta Mater Gravida, che sotto sette strati corporei sovrapposti e rimovibili ad uno ad uno nasconde nell’utero il suo feto. Al collo ha una collana di perle in cera, e una lunga capigliatura castana che scende ordinatamente lungo il corpo fino a lambire i fianchi. Ma la porzione del tronco è apribile e scomponibile: ed ecco allora i diversi strati di visceri che lo compongono, asportabili uno dopo l’altro, ecco le costole, i muscoli, il diaframma, l’intestino, l’apparato cardiovascolare e digerente, le escrescenze e le protuberanze, giù giù fino a quella che Gustave Courbet chiamava l’origine du monde che contiene all’interno una possibile nuova vita.

Sollevandoli uno dopo l’altro, come gli strati di una cipolla, rivelano quella che Cronenberg in Inseparabili (1988) definiva la “bellezza interiore” dei corpi. “È l’interno dei corpi che mi interessa”, diceva uno dei due gemelli ginecologi protagonisti del film. E aggiungeva: “Bisognerebbe istituire dei concorsi a premi per la bellezza interiore”. Non intendeva – ovviamente – la bellezza vagheggiata dai mistici, dagli spiritualisti o dai chierichetti, ma quella che si trova là dove scivola la mano di un ginecologo quando, dopo aver infilato un guanto di plastica trasparente, esce di campo per scomparire al nostro sguardo.

Ora, grazie alle cere anatomiche della Specola fiorentina, Cronenberg rende accessibile anche a noi quella “bellezza interiore”. Ma perché noi possiamo apprezzarla è necessario il suo sguardo. È necessario il cinema. È il cinema che rende vivi e ancora pulsanti quei simulacri. Non ci fosse il cinema, il nostro sguardo su quelle cere sarebbe condannato ad assomigliare a quello degli studenti di medicina che nel dipinto di Rembrandt Lezione di anatomia del dottor Tulp (1632) assistono alla dissezione del braccio di un cadavere, osservando dall’alto e da lontano i tendini rossastri sollevati dalla pinza dell’anatomista. Inerti. Inermi. Morti.

Nel cortometraggio appositamente realizzato per la mostra (Four unloved women, adrift on a purposeless sea, experience the ecstasy of dissection: Quattro donne mai amate, alla deriva su un mare senza scopo, sperimentano l’estasi della dissezione) Cronenberg invece rende tutto ancora vivo: prima accarezza quasi pudicamente i capezzoli dorati, le labbra socchiuse, i piedi minuscoli e aggraziati delle quattro veneri di cera esposte in mostra, ma poi sale in plongé sopra i loro corpi inanimati e disvela ghiandole, vasi sanguigni, tessuti irrorati da capillari rossi e blu. Non può non venire in mente Crimes of the Future (2022): il dolore fisico è scomparso, i corpi non lo sentono più. È una società anestetizzata quella che affiora dal buio denso e viscido in cui galleggia l’ultimo film del regista canadese.

Nella transizione verso il post-umano i corpi hanno acquisito la liberazione dal dolore (come dalle malattie e dalle infezioni) ma al tempo stesso hanno perso la facoltà di “sentire”. Neanche il sesso funziona più: i corpi mutanti che popolano il film non sanno più godere del contatto fra le labbra, le lingue, la pelle e gli organi “visibili” che prima della mutazione generavano il piacere. Ora l’ultima residua possibilità di “sentire” (o la prima nuova forma del “sentire” mutato) è legata alla lacerazione della carne, e alla capacità di incidere i corpi, di tagliarli, bucarli, aprirli e sviscerare – letteralmente, ancora una volta – la loro bellezza interiore.  “La chirurgia è il nuovo sesso”, si dice a un certo punto. Tanto che i due protagonisti Saul (Viggo Mortensen) e Caprice (Léa Seydoux) sono due artisti performativi che si esibiscono in una sorta di “teatro anatomico” in cui la dissezione chirurgica diventa l’ultima ed estrema espressione di sessualità.

“Nell’arte di Caprice – ha scritto Daniele Cassandro su “Internazionale” – c’è un invito a guardare nell’indicibile, a scrutare l’interno di un corpo umano come se fosse la scena di un teatro, con le sue quinte di carne che si aprono su un dilettevole rovinismo di tessuti, cartilagini e organi”. Forse allora – tornando alla mostra di Fondazione Prada – è proprio l’estasi della dissezione che ha colpito Cronenberg nei volti di cera delle veneri modellate dai ceroplastici del ‘700: nessun segno di dolore, di sofferenza, di agonia. Piuttosto labbra socchiuse e palpebre abbassate, in espressioni allusive di piccoli possibili orgasmi.

Ed ecco allora che Cronenberg sottrae le quattro Veneri fiorentine settecentesche (che non si vergognano di nulla, neanche dei loro organi interni la cui vista può significare solo morte e putrefazione) a ogni possibile teatro anatomico e le mette a galleggiare adagiate sui loro materassini sull’acqua azzurra di una piscina. L’acqua si muove lievemente, ondeggia, è viva, non stagnante. Amniotica? Forse. Ma tutto intorno a loro è vivo e luminoso, lontanissimo dai toni cupi del teatro anatomico di Rembrandt.

Qui nella colonna sonora si sentono i versi e le grida di uccelli marini, e soffi di venti, e sciabordii di acque. La natura è viva, ancora. La natura è luminosa. La luce illumina i corpi di cera. Li fa brillare. E ai versi degli uccelli a poco a poco, prima quasi impercettibilmente poi sempre più evidentemente, si mescolano i gemiti, i sospiri, i sussurri e i versi del piacere femminile. Che non si vede, ma si intuisce. Ancora una volta Cronenberg fa crash (fra organico e inorganico, fra visibile e invisibile, fra estatico e orrorifico) e ci porta fino al confine: là dove lo sguardo si deve fermare, lasciando che siano altri sensi a farci “sentire” quello che (ancora?) non ci è dato di poter vedere.

Cere anatomiche. La Specola di Firenze. David Cronenberg, Fondazione Prada, Milano, 24 marzo 2023 − 17 luglio 2023.

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