La macchina da presa inquadra in piano ravvicinatissimo le muscolature tese, le criniere, il pelo di un gruppo di cavalli imbizzarriti che si urtano tra loro alla luce naturale e occidua del sole. Nella scena d’apertura di Il potere del cane di Jane Campion la forza dell’animalità diventa una forma plastica che assume già una minacciosità inquietante.

Siamo nel Montana degli anni venti, dove due ricchi fratelli allevatori, Phil e George Burbank, si occupano di un immenso ranch. Il primo torvo, selvatico, rude e sopraffattore, il secondo remissivo, succube di una solitudine accresciuta dall’incomunicabilità con il fratello. Da un lato una sintonia di Phil con la natura e la sua potenza, il mondo animale, da cui si sprigiona il vortice di energie con cui sembra avere un magnetico rapporto. Dall’altro, per George, una mansuetudine e una metodicità che lo rendono silenziosamente succube dei comportamenti selvatici e scontrosi del fratello, il quale pare avere anche una sorta di rituale devozione all’aura mitica di un allevatore scomparso, Bronco Henry, che lo aveva iniziato da ragazzo a domare le mandrie e a montare i cavalli.

Siamo in uno scenario che fa venire in mente Ford, certo: la luce abbacinante del paesaggio ripresa (come in The Searchers) a contrasto dagli interni bui del ranch, dai riquadri delle porte e delle finestre. Ma siamo anche in un western obliquo dove, come sempre in Campion, la forza naturale della terra e degli elementi incontra, e turba, le vibrazioni femminili, ipersensibili e disturbate. Infatti una sorta di rimosso incombe, attraverso la figura di una vedova precocemente appassita (il cui isterismo si incarna perfettamente nella fragilità tremante e nervosa di Kirsten Dunst): il marito fu trovato impiccato dal figlio adolescente, Peter (“Quando è morto mio padre, volevo solo aiutare mia madre” dice la sua voce off all’inizio).

La donna gestisce in paese il ristorante dove i mandriani vanno a cibarsi. È aiutata dal ragazzo, il cui corpo insieme flessuoso e fragile contrasta con la ruvidezza dei mandriani, capeggiati da Phil, il quale nasconde una pulsione omofila mascherata dietro una ostentata omofobia, come quando spinge gli allevatori allo sberleffo verso il ragazzo chiamandolo “femminuccia”. Il giovane Peter serve a tavola e compone centrini floreali di carta (“La mia prima madre faceva la fioraia” dice con ritrosia quasi a giustificarsi). Tra madre e figlio c’è come una corrente simbiotica, come se si proteggessero a vicenda. George è attratto dalla delicatezza di questo rapporto e dalla fragilità della vedova fino a sposarla e condurla ad abitare nella parte del ranch dove vive con il fratello.

Comincia da qui un racconto dai toni faulkneriani, ma anche un romanzo di formazione, come pure una fosca parabola allucinatoria alla Hawthorne (il film è tratto da un romanzo cult del 1967 di Thomas Savage, che riprende questa tradizione americana), che Campion dipana in cinque parti, quasi come i movimenti di una sonata per pianoforte, alternando toni sommessi e cupi a furie improvvise. Ma soprattutto lasciando veleggiare e affondare la camera dall’alto sul paesaggio abbacinante, sulle balze color oro delle colline, sulle distese di granturco o muovendola a perlustrare gli interni bui del ranch con le teste di cervi e bisonti, cioè gli spiriti totemici degli animali, appesi alle pareti. Perché è proprio in questa continua inversione e fluttuazione di forma e forza, di selvaggio e delicato, di sferzante e carezzevole che risiede la cifra della regista neozelandese.

E ciò in altri suoi film, come Lezioni di piano (1993) o Holy Smoke – Fuoco sacro (1999), si manifestava nell’erotico magnetismo attrattivo e conflittuale di femminile-maschile, cui corrispondevano ulteriori binomi: tra il civilizzato e il selvaggio, il pudore e la spudoratezza, il seduttivo e l’istintuale, il delicato e il brutale. Qui però per la prima volta Campion va a fondo nel filmare qualcosa di inedito rispetto ai suoi “ritratti di signora”: la complessità mascolina. Il rapporto di fraternità tradita, il branco maschile ferocemente solidale, i turbamenti crudeli dell’adolescenza in cui il “genere” è ancora androgino, la solitudine del maschio celibe: tutte declinazioni al maschile che il film esplora però con una obliqua sensibilità femminile, legata a una sintonia con le forze della terra.

Il cinema di Jane Campion è sempre attraversato e avvolto da un senso inquietante del paesaggio che assorbe i corpi e le psicologie stregandole con una avvolgente forma filmica. Qui ammatassa un groviglio di sottili tensioni che si intesse tra i personaggi espandendosi come un maleficio, e che pare emanarsi dalla energia selvaggia degli animali del ranch. Ed è Phil il tramite di questo flusso, che contagia l’atmosfera dal momento in cui avverte come estranea la intrusione femminile della vedova. Comincia quindi ad attrarre Rose in una trama silenziosa, facendole sentire la sua ostilità e insieme il suo fascino ruvido. Quando (evocando Lezioni di piano) George trasporta nel ranch un pianoforte cui le doti di delicata pianista di Rose dovranno affidarsi, il motivo suonato sui tasti viene, come una eco maligna, ripetuto e distorto dal banjo di Phil. Costui sembra volerla condurla a poco a poco verso una ossessione, e infatti Rose comincia a spezzarsi, a ubriacarsi di nascosto. In lei avviene uno strappo doloroso e insieme una ferita erotica dal momento in cui la repulsione per Phil rasenta l’attrattiva per il suo corpo ruvido e sporco (come, in Lezioni di piano, lo strappo nella calza nera della pianista muta Ada Mc Grath, anche lei giovane vedova, che lascia scoperto il lembo di carne sotto gli occhi del misterioso inglese che vive in simbiosi con gli indigeni).

Campion possiede la straordinaria capacità di farci sentire con forza aptica, con una sinestetica sensorialità, gli accordi-disaccordi che scorrono compenetrandosi tra lo psichismo e la fisicità, con una irruenza e insieme ambiguità sfumate. Così Peter, che vuol diventare chirurgo e che va componendo su un quaderno delicati disegni a collage, cattura un coniglietto e lo custodisce teneramente salvo per poi squartarlo ed esplorarne le viscere. Così Phil, che si compiace di non lavarsi nella vasca da bagno, si immerge nudo col corpo cosparso di fango nelle acque del fiume ombreggiate dagli alti fusti arborei.

Questi contrasti sono immersi nel film in una sempre più stringente aura di maleficio animale che reclama un sacrificio (e già in una scena implicitamente simbolica Campion filma Phil che con tecnica implacabile castra i vitelli). Ma, come accade appunto per i riti tribali di passaggio, ciò richiede il ripetersi di una iniziazione, la sua trasmissione. Phil ne diviene oscuramente consapevole quando dal disprezzo per l’effeminatezza di Peter passa al sottoporlo a un addestramento, a un rito di passaggio appunto (ripetendo quello ricevuto a suo tempo dal mentore “totemico” Bronco Henry): gli insegna a cavalcare e a condurre le mandrie, lo introduce quindi in una filogenesi animale.

Nel compiersi di questo passaggio, Campion filma anche, con una torbida e magistrale cadenza, il momento in cui nel fumare insieme la “cicca” di una sigaretta tra Phil e Peter scatta l’attrazione fisica: lo sguardo del ragazzo che si ammorbidisce, le volute di fumo, la fessura di luce che illumina di taglio l’occhio di Phil. Ormai il ragazzo ha imparato a vedere l’invisibile (“Gli occhi devono imparare a vedere ciò che è nascosto”). Di fronte alle balze che modellano la collina Peter vede: “È un cane. Un cane che abbaia”. Il rito si avvia al compimento. Sotto gli occhi del ragazzo il sangue umano di Phil si era mescolato al sangue animale ed era gocciolato sul grano. Phil morirà di avvelenamento da antrace che si trasmette in forma di carbonchio dal contatto con animali infetti. Il maleficio si compie e si dissipa, e, come avviene lungo tutto il film, qualcosa si nasconde mentre si rivela. Peter dall’alto della casa, nascosto dietro i vetri della finestra, vede il bacio di George e Rose. Su questa nota sospesa si chiude il film: sulla musica di uno sguardo e di un bacio. Su un atto sacrificale compiuto, su una rivelazione taciuta.

Il potere del cane. Regia: Jane Campion; sceneggiatura: Jane Campion; fotografia: Ari Wegner; montaggio: Peter Scibberas; scenografia: Grant Major; costumi: Kirsty Cameron; musiche: Jonny Greenwood;  interpreti: Benedict Cumberbatch, Kirsten Dunst, Jesse Plemons, Kodi Smit-McPhee; produzione: See-Saw Films, Bad Girl Creek, Brightstar, BBC FIlm, Max Films, Cross City Films; origine: Nuova Zelanda, Australia; durata: 128′; anno: 2021.

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