“Circolo polare Artico, Osservatorio Barbeau”. Una serie di totali inquadrano gli spazi vuoti, silenziosi e asettici di un laboratorio astronomico che veicola lo sguardo a 360° interfacciando la natura incontaminata alla moltitudine di schermi interattivi. “Anno 2049 tre settimane dopo l’evento”. Un uomo dall’aspetto trasandato si trascina stancamente verso il tavolo posto davanti a una finestra-schermo dalla quale appaiono in sovrimpressione le poche informazioni che ci servono per entrare nel film (come nella più canonica tradizione degli establishing shot hollywoodiani).

Ecco, potremmo anche fermarci qui. Perché dopo appena quaranta secondi questo The Midnight Sky – adattamento del romanzo Good Morning, Midnight (2016) di Lily Brooks-Dalton – ha già chiamato in causa una moltitudine di immaginari riconoscibili facendoli dialogare: siamo ai confini estremi del nostro pianeta, ai limiti della civilizzazione e del progresso, lì dove le tecniche dell’osservatore radicalizzano e rifunzionalizzano la condizione spettatoriale moderna divenuta ormai interattiva. L’anno è il 2049 – subito dopo un non ben definito evento catastrofico legato al climate change e al surriscaldamento globale –, quindi un numero simbolico per il cinema contemporaneo che proprio in Blade Runner 2049 (2017) ha trovato il punto di fusione decisivo tra la fantascienza distopica novecentesca e il post-apocalittico che sta sempre più pre-mediando i traumi collettivi del XXI secolo.

Proseguiamo. L’uomo misterioso solleva ora lo sguardo verso lo schermo-vetro facendo balenare un flashback che ci spiega come mai gli altri superstiti umani abbiano deciso di abbandonare la crosta terrestre. Insomma, il regista-attore George Clooney fa istantaneamente slittare ogni riflessione teorica sul “potere delle immagini” (qui totalmente sottratte al visto e delegate solo a tracce visibili di un evento traumatico indefinito) verso quella sul “potere degli schermi” (come ultima interfaccia possibile con l’altro da sé).  Uno slittamento che origina le due dimensioni narrative del film: il professor Augustine, ultimo spettatore sulla Terra, scopre che l’equipaggio della missione spaziale Aether sta facendo ritorno dal lontano pianeta K23.

Stacco. L’equipaggio multietnico di Aether è portatore di una paradossale lieta novella: la luna di Giove è abitabile, può ospitare insediamenti umani, quindi i problemi del nostro malandato pianeta potrebbero essere risolti. Ma “perché c’è così tanto silenzio sulla Terra?”. Da Barbeau a Aether, pertanto, l’inquadratura fluttua attraversando superfici riflettenti che proteggono dall’esterno i personaggi e nel contempo veicolano le informazioni sull’ultimo disperato controcampo possibile. Gli schermi privi di immagini referenziali diventano così veicoli di protezione e unici mezzi di comunicazione, unendo tempi diversi delle loro funzioni sociali e culturali. Ecco perché il film appare esageratamente dilatato: questa sovrabbondanza di punti di osservazione non sembra mai poter attivare un solido dispositivo narrativo. Clooney perde molto del suo tempo a pedinare gesti ripetitivi, piccoli riti, tentativi di fuga o di alimentarsi, infine immersioni nella realtà virtuale associata unicamente alla dimensione del ricordo privato. Le poche azioni riconducibili a un universo fenomenico, infatti, vengono subito inscritte in un orizzonte di attese ampiamente previsto: la tempesta di meteoriti che decima l’equipaggio di Aether presa di peso da Gravity (2013) – ma senza la fascinazione visiva del film di Cuaròn – o la natura impervia che attacca Augustine come in un survivor movie alla Revenant (2015) – ma senza la fascinazione western del film di Iñárritu.

The Midnight Sky, allora, non fa altro che catalogare scarti di immaginario che fluttuano nella nostra memoria o nelle convenzioni del genere di riferimento: la catastrofe ambientale nel recente passato, le macerie della civilizzazione come reliquia sacra, il viaggio verso nuove frontiere (spaziali) come sopravvivenza, la Terra incontaminata come epifania di bellezze e improvvisa ferinità, infine il rapporto genitoriale come unica speranza possibile. Inserendosi perfettamente in un discorso sulla fantascienza del XXI secolo che riflette sulle paure globali con approccio umanista (da Ad Astra, 2019, di James Gray a Light of My Life, 2019, di Casey Affleck e A Quiet Place, 2018, di John Krasinski) sino ai ragionamenti sui massimi sistemi della meccanica quantistica (Interstellar, 2014, di Nolan).

Eccoci al punto: come in tutti i film di Clooney regista la fedeltà iniziale a un genere di riferimento e a un universo referenziale inequivocabile viene apertamente concepita come ragionamento autoriflessivo sulla possibilità (o meno) di reiterare quei modelli nel cinema contemporaneo. Insomma, il suo percorso registico sembra particolarmente adatto per essere assorbito dall’algoritmo di Netflix che si basa proprio sul campionamento e sulla rimessa in circolo di  rimandi tec-nostalgici riflettendo indirettamente su questioni contemporanee. Come?

Il professor Augustine non è solo al Polo Nord. Una ragazzina muta si è sottratta all’evacuazione e riesce a disegnare solo il suo nome: Iris. Simbolo di purezza. Augustine e Iris comunicano solo con i gesti – la scena del pranzo sembra una serigrafia chapliniana – avvertendo un inspiegabile senso di familiarità. Ma a che tempo appartiene Iris? La bambina tocca ogni singola superficie schermica per mera curiosità, ma nell’ambiente softwarizzato di Barbeau il tatto bypassa il ruolo di primario organo di senso trasformandosi in comando o teleazione. “Non toccare!” gli ripete Augustine, sino a quando quell’originario Contact padre-figlia (per dirla con Zemeckis, 1997) schiuderà finalmente i suoi fantasmi psichici aiutandolo a interpretare il presente.

Insomma, è la memoria del cinema che pian piano erompe come unica dimensione possibile per creare contatto: K23 è una sorta di Pandora avatariana che (proprio come nel film di James Cameron) viene direttamente associata al Regno di Oz: “È come atterrare nel regno di Oz e vedere i colori per la prima volta” dice l’astronauta incinta Sully nel momento del contatto ritrovato con Augustine. La dimensione del racconto torna come antico referente nelle parole ritrovate di una figlia (Iris a Barbeau o Sully su Aether?) che ha fatto esperienza nelle frontiere utopiche immaginate da un padre malato e confinato sulla Terra. Il regno di Oz, l’eterna metafora dello spettatore cinematografico novecentesco, torna qui come memoria mediale che ci faccia riconoscere come comunità nel lockdown dei sentimenti.

Fermiamoci qui. Questo è un film forse troppo ambizioso, certamente derivativo ed eccessivamente pre-visto. Ma è proprio nella sincera riflessione sugli immaginari algoritmici dell’audiovisivo contemporaneo ridiscussi dal cinema che Midnight Sky trova il suo motivo di interesse e di commozione. Perché nel 2021 il cinema (quasi) definitivamente confinato sulle piattaforme streaming è colto in viaggio verso una Oz/Pandora/K23 ancora da raggiungere. Il cammino è lungo, ma qualcosa sopravvive. Somewhere over the Rainbow.

Riferimenti bibliografici
M. Carbone, A. C. Dalmasso, J. Bodini, a cura di, I poteri degli schermi. Contributi italiani a un dibattito internazionale, Mimesis, Milano-Udine 2020.
J. Crary, Le tecniche dell’osservatore. Visione e modernità nel XIX secolo, Einaudi, Torino 1990.
A. Maiello, a cura di, R. Grusin, Radical mediation. Cinema, estetica e tecnologie digitali, Pellegrini, Cosenza 2017.

The Midnight Sky. Regia: George Clooney; sceneggiatura: Mark L. Smith;  fotografia: Martin Ruhe; montaggio: Stephen Mirrione; musiche: Alexandre Desplat; interpreti: George Clooney, Felicity Jones, Kyle Chandler, Demián Bichir, David Oyelowo, Tiffany Boone, Caoilinn Springall, Sophie Rundle, Ethan Peck, Tim Russ, Miriam Shor; produzione: Anonymous Content, Netflix, Smokehouse Pictures, Syndicate Entertainment, Truenorth Productions; distribuzione: Netflix; origine: Stati Uniti d’America; durata: 118’.

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