Due fra i più potenti miti del cinema americano classico sono sicuramente la frontiera, l’ovest infinito da scoprire e, suo opposto e complementare, il mito della vita confortevole e sedentaria perfettamente visualizzato e localizzato nelle tranquille periferie suburbane del secondo dopoguerra, destinate alla classe media wasp. Queste ambienti tipici non si limitano ad essere astrattamente luoghi simbolici dell’immaginario collettivo, ma, usando la celebre espressione di Michail Bachtin, sono piuttosto cronotopi, espressioni artistiche che condensano spazio e tempo e definiscono concrete dimensioni esperienziali e performative.
La frontiera, cronotopo privilegiato del western, va da sé, è ambiente della scoperta, della conquista, dell’affermazione e dell’eroismo individuali. I quartieri residenziali periferici, invece, sono lo spazio della costruzione dell’identità collettiva e della sua stabilizzazione; difatti, definiscono il cronotopo della commedia brillante, del romanticismo a portata di tutti, del sogno americano fatto realtà. Nonostante queste costruzioni artistiche ci appaiano fortemente codificate, la natura del cronotopo è, in realtà, dinamica e plastica e, nel suo continuo modificarsi ed essere riutilizzata, problematizza e dialoga criticamente con la sua stessa storia; la frontiera può restringersi, o addirittura chiudersi come nei recenti The Hateful Eight (2015) di Tarantino e L’inganno (2017) di Sofia Coppola (così come nell’originale di Don Siegel, La notte brava del soldato Jonathan, 1971); la prateria può diventare luogo di violenza e sterminio, l’eroismo trasformarsi in cinico realismo; allo stesso tempo la periferia residenziale è contemporaneamente luogo di gioia e aspirazioni familiari e sociali, ma anche la sede di commedie dal tono satirico e del melodramma, della delusione di quello stesso american dream di cui si fa contemporaneamente portavoce.
La natura dialogica (sempre per citare Bachtin) di questi miti audiovisivi ci permette di capire che questi non costituiscono una materia inerte e astorica. Tutt’altro, Furio Jesi c’insegna che i miti sono macchine, assemblaggi modificabili di schemi narrativi e percettivi che informano la morale, la costruzione dei ruoli sociali e delle differenze ma, soprattutto, la concettualizzazione del passato e della storia. I miti, come macchine, vengono usati per gestire la memoria, ma “parlano” anche attraverso noi che inconsciamente ne facciamo uso, per organizzare la realtà che ci circonda e definire le nostre identità. Quando sentivamo Donald Trump dire che l’America doveva “tornare” ad essere grande, e che lui ne sarebbe stato l’artefice, il presidente statunitense si riferiva ad un mito: quello già evocato negli anni ottanta da Reagan, ovvero il ritorno al passato mitologico sopramenzionato in cui gli Stati Uniti erano la terra della gente “dabbene” (direbbe Jesi), in cui a tutta la working class (più o meno) era promessa una bella casa di periferia. Non è certo casuale che George Clooney, con il suo ultimo film Suburbicon, già come molte/i altri prima di lui (si pensi ad esempio a A Serious Man dei fratelli Coen, anche co-autori della sceneggiatura del film insieme allo stesso Clooney e Grant Heslov) si rivolga proprio a quella presunta età dell’oro per ribaltare e decostruire la macchina politica/mitologica ad essa collegata.
Il film incomincia nello stile delle vecchie fiabe Disney (un libro si apre e ci mostra un mondo incantato in cui, però, il melting pot è esclusivamente bianco), ma molto rapidamente le iniziali note romantiche e fiabesche si trasformano in toni noir e grotteschi. Nell’operare questo ribaltamento di miti e generi, il film gioca chiaramente su di un’opposizione cronotopica fra esterno/interno, che allo stesso tempo richiama l’opposizione fra le verità di facciata mostrate esternamente dalla e alla comunità, e le meschinità, la violenza e i piccoli-grandi orrori della vita fra le pareti domestiche, nel caso specifico, quelle della famiglia Lodge. L’arrivo nel quartiere della famiglia Meyers ci mostra, inoltre, come i miti non siano neutrali. In quanto afroamericani i Meyers non possono godere del benessere della middle class allo stesso modo e nello stesso luogo dei bianchi, a loro volta divisi e sospettosi l’uno dell’altro per le specifiche appartenenze religiose e per le dubbie discendenze (“Il suo non è un cognome ebreo?” chiede il capitano Hightower a Gardner Lodge/Matt Damon).
Ogni diverso è chiaramente un soggetto esterno che rischia di compromettere la stabilità e la purezza del sogno americano. In questo senso il film di Clooney è estremamente efficace nel dialogare col presente e nel manifestare come il razzismo non si nutra solo di pregiudizi e discriminazioni astratte verso un fantomatico Altro, ma anche della paura del declassamento, del risentimento e dell’odio verso la minoranza colpevole di non permetterci di partecipare del grande sogno unificante della comunità (si dice: “Il valore delle case scenderà se ci sono dei neri nel quartiere”). Inoltre, le parole razziste del “bravo” cittadino di Suburbicon all’inizio del film: “Favoriamo l’integrazione razziale quando i negri non si mostrano pronti per essa, e non vogliono migliorare”, ricalcano perfettamente quelle di Gillese Deleuze e Félix Guattari quando affermavano che il razzismo “includa” i diversi per scarti di devianza, definendo gente che per propria colpa non può essere come noi (Deleuze e Guattari 2014, p. 234).
Il film, però, appare meno efficace proprio nel costruire una continuità conflittuale fra la questione razziale e la brutalità del sogno americano del goffo pluriomicida Gardner e della sua complice/amante Maggie (Julianne Moore). La violenza domestica e quella di massa verso i Meyers si accendono ed esplodono parallelamente, generando doppiezze e rimandi forse troppo palesi che rischiano, da un lato, di minimizzare la complessità del conflitto razziale e, allo stesso tempo, di sminuire le crudeli dinamiche della vita familiare. È invece sul corpo-maschera di Matt Damon che le ambiguità e le contraddizioni dell’american way of life sembrano esprimersi al meglio, mostrando ironicamente un brutale uomo medio che cerca in modo grottesco di fingersi padre autorevole/autoritario del piccolo Nicky (Noah Jupe). Ed è a quest’ultimo personaggio che, consumatosi il massacro dell’intera famiglia, spetta il compito di connettere l’interno di casa Lodge con quello dei Meyers, attraverso la sua amicizia con Andy (Tony Espinosa), e i loro giochi infantili (il baseball fra le staccionate, il telefono a spago), che, si sa, mostrano più lungimiranza e capacità di unire le persone delle misere invidie e cattiverie espresse dagli adulti. Ci sembra di capire, purtroppo, che è sempre ai bambini che affidiamo l’arduo compito di migliorare il mondo assurdo e ottuso creato dai loro genitori.
Riferimenti bibliografici
M. Bachtin, Estetica e Romanzo, Einaudi, Torino 2001.
G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e Schizofrenia, a cura di M. Carboni, Castelvecchi, Roma 2014.
F. Jesi, Il Tempo della festa, a cura di A. Cavalletti, Nottetempo, Roma 2013.
Id., Cultura di Destra. Con tre inediti e un’intervista, a cura di A. Cavalletti, Nottetempo, Roma 2011.