L’indicibile, com’è noto, è assolutamente dicibile, infatti viene detto e ridetto in continuazione. Questo non toglie, tuttavia, che ci sia qualcosa di osceno nella nostra ostinazione nel continuare a dire ciò che, sebbene in modo confuso, sappiamo bene che dovrebbe rimanere indicibile. Che cos’è, propriamente, indicibile? È tutto ciò che, in un fatto, è ovvio e manifesto nel fatto stesso, e che quindi non richiede ulteriori parole né tantomeno commenti (in questo senso, all’interno della generale oscenità del linguaggio, il nome è meno osceno di un aggettivo). Pensiamo alla fede in Dio. Per chi questa fede è un fatto della vita, cioè un fatto che assorbe l’intera sua esistenza, è del tutto superfluo dire “credo in Dio”. In questo caso il dirlo è osceno, perché trasforma un’esperienza radicale, e proprio per questo onnicomprensiva, in qualcosa di accessorio e secondario, come dire di qualcuno che porta un paio di pantaloni neri. Potrebbero essere blu, o grigi, non cambierebbe nulla.
L’indicibile, allora, è indicibile non perché “contenga” in sé qualcosa che sfugge alla parola. Al contrario, in effetti, come scriveva Hjelmslev nei Fondamenti della teoria del linguaggio, «le lingue (e le lingue soltanto) sono in grado di formalizzare qualunque materia; nella lingua, e soltanto nella lingua, è possibile “lottare con l’inesprimibile finché si arrivi a esprimerlo”» (Kierkegaard). L’esistenza stessa della lingua, in effetti, non attesta altro che – per la lingua – non c’è nulla di indicibile. È proprio questa potenza, che nella teoria semantica si chiama principio dell’onniformatività delle lingue, a fare problema. La lingua, nella sua ottusa e infantile invadenza, può dire tutto, ma noi (e tutti, prima o poi, arrivano al proprio punto di indicibilità), non vogliamo che tutto sia detto. Il motivo è semplice: se tutto si può dire, allora non c’è più alcuno spazio segreto. Me senza segreti non c’è più nulla che ci renda diversi dagli altri, dalla massa enorme e indifferenziata degli altri.
È il segreto che rende unici, senza segreto non c’è più nessuna singolarità. Un segreto che è tanto più segreto quanto più, appunto, è segreto anche (e forse soprattutto) a noi stessi. È osceno, allora, ogni tentativo di non rispettare il segreto, ossia ogni volta che la lingua ci porta a provare a dire quello che non è il caso di dire. Va ribadito che quello che è propriamente osceno è proprio questo tentativo di dire tutto, e quindi di spiegare tutto. Non si tratta di nascondere la verità, come penserà qualcuno che sia ossessionato dalla verità, semmai di capire che il prezzo che si paga per quella verità è la vita stessa che quella verità pretende di descrivere. Nel saggio Estraneità, integrazione e crisi. Sulla pièce Kaspar di Peter Handke, Winfried Sebald racconta di come, all’interno del celebre testo teatrale dello scrittore austriaco, i “suggeritori” mettano in bocca al giovane Kaspar le parole da dire:
Ciò che i suggeritori mostrano sul piano del linguaggio è trasferibile in altri ambiti, diventa atto di cesura, di vivisezione della realtà e infine dell’uomo. A questo punto il vago tormento dell’inconsapevolezza cede il posto al dolore acuto dell’esperienza. La smania di scoprire come la vita giunga ad animarsi induce a smembrare un mondo di immagini nelle sue componenti anatomiche. La sua grammatica diventa comprensibile alla stregua di un sistema meccanico che ne incide progressivamente le nozioni fondamentali sulla pelle di chi è vittima di quella tortura risultante dalla combinazione fra apparato e organismo” (Sebald 2022, p. 60).
Il giovane passato alla storia come Kaspar Hauser era improvvisamente comparso, nei primi anni dell’Ottocento, in una piazza di Norimberga quasi incapace di parlare, stringendo in mano un foglietto scritto. Secondo la storia avrebbe vissuto fino quel momento in completo isolamento, in una cella, senza poter mai parlare con nessuno. Kaspar Hauser ha sempre rappresentato un caso esemplare per ragionare del rapporto difficile fra il linguaggio e l’esperienza, ossia appunto fra la pulsione di dire e il segreto che non ha alcun bisogno di essere detto. Cioè fra l’onnipresente tentazione oscena del linguaggio e l’altrettanto intrinseca resistenza della vita ad essere detta ed esplicitata: «La spietata educazione di Kaspar» – prosegue Sebald – «obbedisce alle leggi del linguaggio. Definire tortura linguistica questa pièce» il testo di Handke del 1968 si intitola appunto Kaspar (ovvero una tortura di parole), «sarà quindi giusto, e non solo perché in essa si continua a martellare Kaspar finché questo non ci rimette quello che potremmo chiamare il suo sano intelletto animale. A voler essere più precisi, è il linguaggio stesso che, in questo processo di apprendimento, si rivela un arsenale di strumenti al servizio della crudeltà» (ivi, pp. 59-60).
Sia Handke che lo stesso Sebald, tuttavia, non si trattengono dal parlare di Kaspar, cioè non riescono a rispettare il suo terribile segreto. In realtà è la stessa pulsione che muove anche il desiderio di raccontare per immagini la storia di Kaspar, come nel celebre film L’enigma di Kaspar Hauser (Jeder für sich und Gott gegen alle) del 1974 scritto e diretto da Werner Herzog. Non si deve credere, sarebbe una via d’uscita troppo semplice, che l’oscenità della parola possa essere evitata attraverso l’uso delle immagini. Come messo in luce da Emilio Garroni in Immagine Linguaggio Figura: Osservazioni e ipotesi (2005), l’immagine è una parola esplicitata, così come la parola è un’immagine implicita. In questo senso un’immagine può essere oscena tanto quanto una parola. Il problema di Sebald, in questo libro come anche nel suo capolavoro Austerlitz, è proprio quello di trovare un modo di parlare dell’indicibile (che nel caso di quest’ultimo libro è propriamente un irricordabile), ossia di come dare voce a qualcosa che non vuole parlare, e che anzi sembrerebbe desiderare solo di essere dimenticato.
Ma allora perché parlarne ancora? Perché in realtà non è del tutto corretto sostenere che l’indicibile voglia essere solo lasciato in pace. L’indicibile vuole essere lasciato in pace, ma solo dopo essere stato evocato, cioè solo dopo che è stato riconosciuto come indicibile. Vuole dapprima mostrarsi, terribile e muto, ma poi subito dopo svanire. A questo punto può lasciarci, e ritirarsi per sempre nel nostro e nel suo silenzio. In questo senso la letteratura, per Sebald, non ha altro compito che misurarsi con l’indicibile, in particolare con l’evento definitivo della Shoah – che Sebald, e non solo in quanto tedesco, dal momento che nessuno può dire di sé di non averci a che fare, sentiva come un peso affatto proprio – l’evento che ha annullato per sempre ogni spiegazione e tentativo di razionalizzazione. Così, in conclusione del saggio dedicato alla pièce di Handke scrive, quasi come fosse una dichiarazione di poetica, l’unica poetica in grado di resistere alla tentazione dell’oscenità:
Le immagini, là dove si sottraggono a quel confronto paralizzato, diventano, in quanto codici indecifrabili, gli esempi di una ribellione spezzata. […] “Così il suono del linguaggio vuole in qualche modo ‘esprimere’ l’evento oggettivo e quello soggettivo, il mondo dell’esterno come dell’interno; ma ciò che esso riesce a conservare non è già la vita e la pienezza dell’esistente stesso, bensì unicamente il suo morto compendio” [Sebald sta citando dal libro di Cassirer Linguaggio e mito]. È questo un dilemma dal quale la letteratura può affrancarsi solo mantenendosi fedele alla lingua asociale, alla lingua bandita, e imparando a utilizzare come mezzo di comunicazione le immagini opache di una ribellione spezzata (ivi, p. 64).
Una “lingua asociale” è, in effetti, una strana lingua, ché la lingua o è sociale e quindi intercomprensibile, oppure non è lingua, perché nessuno la può capire. Che cos’è una lingua “asociale”, allora? È una lingua, che quindi non rinuncia all’aspirazione della comprensibilità, tuttavia è una lingua che in fondo non vuole farsi veramente capire, ché la perfetta intellegibilità come abbiamo capito è oscena. È una lingua, che usa però delle paradossali “immagini opache”, cioè immagini che non pretendono di squadernare il fatto, al contrario, immagini che non vogliono altro che permettere al fatto indicibile di mostrarsi senza però dover essere spiegate, immagini che nascondono invece di svelare: «E da ciò ancora una volta risulta che il grado di autonomia dell’uomo davanti alla catastrofe reale o potenziale messa in moto dall’uomo stesso non è superiore, per quanto riguarda la storia della specie, a quella del topolino nella gabbia dello scienziato» (ivi, p. 85). Il vantaggio della letteratura (e dell’arte in genere) rispetto alla scienza consiste proprio in questa consapevolezza: anche la spiegazione più accurata e “razionale” non riesce a liberare il mondo del suo opaco alone di mistero, non riesce ad affrancarci dalla sua intrinseca indicibilità, cioè dalla sua radicale estraneità rispetto alle nostre parole e ai nostri progetti. In questo modo conclude Sebald la sua modesta proposta di poetica, raccontando di una sua visita in Corsica, nel museo dedicato a Napoleone (come un giorno potrebbe essere quello dedicato alla pandemia, o alla guerra in Ucraina):
Ma che cosa sappiamo noi – a priori – del corso della Storia, che procede secondo una legge la cui logica rimane indecifrabile e viene messo in moto da eventi minuti e imponderabili, tali da cambiarne spesso la direzione proprio al momento decisivo: una corrente d’aria appena percepibile, una foglia che cade a terra, uno sguardo che corre da un occhio all’altro in mezzo a un gruppo di persone? E nemmeno a posteriori riusciamo a scoprire come davvero stessero le cose prima, e come si sia effettivamente giunti a questo o a quell’evento di portata mondiale. La scienza del passato, anche la più esatta, non arriva molto più vicino alla verità, comunque inaccessibile all’immaginazione, di quanto possa farlo ad esempio un’ipotesi dissennata come quella di cui fui messo a parte una volta da un dilettante, che viveva nella capitale belga e che aveva condotto ricerche decennali su Napoleone – un certo Alfonse Huyghens, secondo il quale tutti i rivolgimenti provocati nei paesi e nei regni europei dall’imperatore dei francesi erano riconducibili esclusivamente al daltonismo, che gli impediva di distinguere il rosso dal verde. Quanto più sangue scorreva sul campo di battaglia, così mi disse lo studioso belga di Napoleone, quanto più tenero gli pareva il verde dell'erba (ivi, p. 21).
Riferimenti bibliografici
E. Garroni, Immagine Linguaggio Figura: Osservazioni e ipotesi, Laterza, Roma-Bari 2005.
L. Hjelmslev, I fondamenti della teoria del linguaggio, Einaudi, Torino 2019.
W.G. Sebald, Tessiture di sogno, Adelphi, Milano 2022.