Il cinema di Albert Serra è sempre stato un cinema di confini difficili da tracciare e stabilire: l’ambiguità tra scrittura e improvvisazione, negli atti sessuali di Liberté (2019) o nelle battute improvvisate e suggerite nell’auricolare di Pacifiction – Un mondo sommerso (2022); il confronto tra cinema e arte contemporanea, nella videoinstallazione Singularity (2015) o nell’opera performativa Roi Soleil (2018), che lo rendono incline alla definizione di cinema esposto. Ed è seguendo questa prospettiva che l’ultimo film, Tardes de soledad (2024), vincitore della Conchiglia d’oro alla 72ª edizione del Festival di San Sebastián, sembra raggiungere un definitivo annullamento, o superamento, di un altro confine distintivo nel suo cinema: quello tra fiction e documentario.
Definizione, quella di documentario, tendenzialmente risolta in “cinema del reale”, aprendo la strada a un’altra serie di complessi interrogativi. Cos’è il reale? Ha a che fare con la verità? Un esile anziano e un robusto campagnolo spogliati del mito, della meraviglia letteraria, che vagano per i campi spagnoli, con i fili d’erba alta a contrapporsi spesso tra l’obiettivo della camera e i loro corpi, ridimensionati, rifacendosi a una democratizzazione degli elementi cinematografici derivata da Straub e Huillet. Non hanno forse un’aderenza migliore alla realtà i personaggi di Miguel de Cervantes proposti in Honor de cavalleria (2006), rispetto a molti dei recenti docu-crime prodotti dalle piattaforme? Marco Bertozzi, in Storia del documentario italiano (2008), sottolinea come il documentario non vada confuso con l’informazione, ma che debba essere inteso invece come qualcosa che «non si sforza di produrre certezze, non instaura logiche normative ma cede, piuttosto, alla messa in campo del dubbio e dell’ambiguità del confronto» (p. 19).
L’idea di documentario sostenuta da Serra si basa su un concetto di tradimento dell’oggetto trattato, di ciò che si intende raccontare, ai danni del matador peruviano Andrés Roca Rey, uno dei nomi più noti della corrida odierna. Tradimento che, a film concluso, lo porterà a conflitti legali con il regista dovuti a una presunta lesione dell’immagine e al timore di possibili ripercussioni negative che certe scene potrebbero avere su una pratica già di per sé controversa (nelle trasmissioni televisive, ci spiega un esperto di corrida fuori dal cinema, la violenza finale sul toro e sulla sua carcassa non sono mostrate).
Sarebbe quindi disonesto – e anche un po’ assurdo – affermare che, almeno sulla carta, o nei presupposti, Tardes de soledad non sia un documentario. Soprattutto poiché l’aderenza al reale è rintracciabile nel materiale utilizzato, che sfugge al controllo organizzato e preparato di un regista-demiurgo che si limita a osservare ciò che accade con spontaneità. Metodo che tuttavia contraddistingue l’approccio registico di Serra fin dal suo primo lungometraggio di “finzione”, l’amatoriale Crespià (2003). Serra ha difatti sempre dichiarato, o meglio dimostrato, di essere interessato alla libertà concessa dal linguaggio digitale, che la cosa più importante è «sfruttare il digitale per sentire il mondo piuttosto che rappresentarlo» (Serra in Estremo e Federici 2018, p. 12) e «accogliere la realtà indagandola a 360 gradi» (ivi, p. 13).
Nei primi anni Duemila, le possibilità offerte dalle nuove videocamere digitali permettono di riprendere in continuità per lungo tempo e di muovere la camera a seconda dell’ispirazione momentanea. Sono opere che prendono forma dopo, in fase di montaggio, grazie alla scoperta di quanto girato. Dal punto di vista delle riprese, di ciò che si colloca davanti alla videocamera, la differenza tra i film di esplicita finzione e Tardes de soledad allora si assottiglia in modo radicale.
Le immagini del cinema di Serra hanno la capacità di conservare il loro significato, di rimanere ciò che sono, ciò che raffigurano, ma al contempo si aprono a una quantità potenzialmente illimitata di percorsi interpretativi, di letture che ne fanno emergere l’invisibile. A rendere il regista un demiurgo non è più il controllo della messa in scena e la direzione degli attori, ma l’abilità di indirizzare lo sguardo dello spettatore, plasmando attraverso le riprese il reale per farlo divenire altro. Sono quindi immagini suscettibili alle impressioni personali e soggettive, al bagaglio culturale ed esperienziale di ognuno. L’occhio della camera mostra quello che l’occhio umano non vede, rendendo un personaggio di finzione una persona e, viceversa, una persona un personaggio di finzione.
Se da una parte il protagonista è e rimane un matador che, assieme alla cuadrilla, affronta i tori all’interno del sistema della corrida, dall’altra la sua figura si aggiunge al pantheon di maschere serriane che abitano mondi creati sull’ambivalenza realtà-finzione. Così come Don Chisciotte (Honor de cavalleria), i Re Magi (El cant dels ocells), Casanova (Història de la meva mort), Luigi XIV (La mort de Louis XIV), il Duca de Walchen e i libertini (Liberté), e l’alto commissario de Roller (Pacifiction – Un mondo sommerso), Andrés Roca Rey e il mondo di Tardes de soledad vivono e si fondano su un principio di ambiguità, partendo però da una base inversa rispetto alle opere precedenti. Sullo schermo non agiscono più maschere interpretate da attori, ma persone reali che tendono al ruolo di maschera. Come scrive la curatrice e storica dell’arte Chus Martínez, in merito all’esposizione di Singularity alla 56ª Biennale di Venezia: «Il cinema è solo un altro nome per la vita, una vita in una fase molto intensa, dove ogni persona non parla con parole proprie ma con le parole di qualcun altro e recita secondo la pantomima delle relazioni di potere» (Martinez in Estremo e Federici 2018, p. 40).
Superata l’introduzione – che riutilizza il trailer realizzato per la Biennale, in cui è presente un toro immerso nel buio della notte, conferendogli un’aurea da creatura mitologica proveniente da un bestiario medievale –, fin dalla prima scena il film appare immerso in una dimensione religiosa fatta di simboli (l’immagine della Madonna sul comodino) e rimandi (l’insistente segno della croce). Il percorso che Andrés Roca Rey attraversa nel corso dell’opera assume così i caratteri di un viaggio alla scoperta della propria santità.
Un toro lo colpisce con violenza, ma incredulo rimane illeso. “Stavo pensando, perché non sono ferito?” è ciò che si chiede, mentre attorno, nello spazio ristretto di una macchina che si fa sacrestia o confessionale, i suoi compagni toreri come buoni apostoli lo venerano, commossi, sconcertati dalle imprese compiute. Lo sguardo fisso nel vuoto, raccolto, ci porta con lui in un luogo lontano, dove dimora l’invisibile. Nasce il pensiero dell’intervento divino, di una figura superiore, come risposta a tutte le preghiere. Pensiero che presto si fa conferma, con un secondo assalto da cui si salva miracolosamente. Giunti all’ultima vestizione, in cui Roca Rey indossa un abito dorato evocando una comune raffigurazione dei santi, come stigmate le ferite non ancora rimarginate iniziano di nuovo a sanguinare: “Strano, vero?”.
A contribuire al processo di santificazione del personaggio si aggiunge poi un lavoro sulla ripetizione che dà vita a una sorta di ritualità liturgica, ora nel contenuto ora nella forma. Non soltanto le azioni del protagonista e dei suoi compagni si ripetono uguali, ma il film stesso si compone di tre segmenti reiterati: la preparazione (vestizione), lo scontro con la bestia (parabola), il ritorno in macchina (riflessione). Aspetto che investe persino elementi intertestuali, come la frase “Faremo meglio la prossima volta” esclamata da uno dei banderilleros, che riprende la battuta finale di La mort de Louis XIV (2016).
In tutte e tre i segmenti Serra si concentra con insistenza su Roca Rey, catturandone e sottolineandone la postura, la gestualità, la mimica facciale. È una camera stretta che ha spazio solo per la figura del santo, le cui gesta parrebbero assumere progressivamente coraggio e fede. L’esclusione dalla vista, almeno fino alla scena finale, del pubblico e degli spalti, oltre a dare più forza e protagonismo all’immagine del matador, trasforma lo spazio dell’arena in un luogo indefinito, quasi neutro, favorendo l’emersione dell’invisibile. Ecco allora che la ripresa di un picador – torero che affronta la bestia in groppa a un cavallo corazzato – che lotta contro un toro, può rievocare nello spettatore il dipinto, o la situazione, di San Giorgio e il drago di Paolo Uccello, o altri potenziali rimandi iconografici.
Tardes de soledad diventa così (anche) un’opera di finzione, un racconto agiografico che, attraverso la corrida e le sue “immagini del reale”, narra della vita di un santo moderno e della presa di coscienza della sua santità. Visione di certo soggettiva, personale e, chissà, sovratestuale, frutto dell’esperienza avuta di fronte a un cinema, quello di Serra, che da sempre sembra favorire o addirittura incentivare questo approccio. La condivisione di un modo proprio, diverso, di vedere la medesima cosa.
Riferimenti bibliografici
M. Bertozzi, Storia del documentario italiano. Immagini e culture dell’altro cinema, Marsilio, Venezia 2008.
V. Estremo, F. Federici, a cura di, Albert Serra. Cinema, arte e performance, Mimesis, Milano-Udine 2018.
Tardes de soledad. Regia: Albert Serra; fotografia: Artur Tort Pujol; montaggio: Albert Serra, Artur Tort Pujol; interpreti: Andrés Roca Rey; produzione: Andergraun Films, Lacima Producciones, Idéale Audiences, Rosa Filmes; origine: Spagna, Portogallo, Francia; durata: 125’; anno: 2024.