Il tramonto dell’Occidente

di ROBERTO DE GAETANO

Sundown di Michel Franco.

Ci sono luoghi esotici in cui si ambientano storie edeniche ed altri in cui le storie si fanno inquietanti, sospese, prima di precipitare nel dramma. Sempre, comunque, in tali luoghi il quotidiano viene a sospendersi a favore di stati contemplativi o di condizioni di riposo e di inazione. Anche quando queste prendono la forma del confort e del lusso integrati nel “programma vacanze” come vera e propria forma di vita contemporanea.

È ciò che vediamo all’inizio di Sundown. Siamo ad Acapulco, un uomo, una donna, due adolescenti si muovono in un resort di lusso tra piscine e vista mozzafiato su un mare tropicale battuto da un sole accecante. Gesti rallentati, assenza di parole e atmosfera sospesa dominano fino a quando non giunge una telefonata ad interrompere questo stato. Viene annunciata la morte della madre di lei. Tutta la famiglia si avvia a tornare a Londra, da dove proviene. Ma l’uomo, Neil Bennett, si rende conto all’aeroporto di non avere con sé il passaporto. Non potrà partire, tornerà indietro. E da lì si avvia una lenta e continua deriva del personaggio (interpretato in modo convincente da Tim Roth), che si fa accompagnare dal tassista in un albergo anonimo di una zona popolare. Qui deambula smarrito in spiagge popolate da corpulenti messicani, dove la volgarità del comportamento si è fatta stile di vita vero e proprio.

In un contesto degradato nei costumi, in un ambiente dove domina una policromia di plastica (colori delle sedie e oggetti vari) e dove la spiaggia è assembramento disordinato di ombrelloni, corpi e costumi senza eleganza alcuna, l’uomo silenzioso e in ciabatte alterna messaggi al telefono per depistare chi lo cerca, espressioni di insofferenza per l’intensa luce solare, e sguardo indifferente verso l’intorno. Ma ciò che emerge è soprattutto una mancanza di desiderio e di volontà nell’uomo, capace di fuggire ma di non andare molto oltre la sua fuga. Una mancanza di spinta vitale che si traduce in un’assenza di parole, nel suo non dare spiegazioni né risposte a chi gliele chiede. Fa eccezione a questo la conoscenza di una giovane commessa messicana, con cui l’uomo si accompagna, va in giro, in spiaggia, a cena, e ci fa sesso nella camera d’albergo.

Insomma, sembra che ci troviamo di fronte alla deriva esistenziale di un rappresentante della borghesia occidentale in un esotico che rende la dissoluzione più seducentemente dolce ed ammaliante, e ne ricorda altre ben più grandiose – come quella del console inglese nel Messico di Sotto il vulcano di Malcolm Lowry. Ma invece le cose non stanno così. Il film presenta diverse rivelazioni e potenziali svolte narrative. La prima la troviamo quando si rende esplicito che la donna con cui all’inizio l’uomo si accompagnava non era la moglie ma la sorella (interpretata da Charlotte Gainsbourg), e i ragazzi i suoi nipoti. La donna morta dunque è la madre.

L’uomo fugge quindi non da una famiglia formata (che non ha) ma dalla sua famiglia d’origine. Fuga che non viene spiegata. Il film si nega ad ogni complessità psicologica. Emerge semmai una più esplicita connotazione sociale: la famiglia Bennett è una famiglia inglese molto ricca, che possiede un’azienda di allevamento dei suini. Messo alle strette dalla sorella che torna in Messico dopo il funerale per cercarlo, Neil le dice che rinuncia a tutta la sua eredità a fronte di una dotazione mensile, perché i soldi non gli interessano. La sua debole spinta vitale sembra qui dunque radicalizzarsi in una rinuncia grave, quella di cogliere una grande eredità che avrebbe garantito ricchezza e opportunità future. L’uomo sembra volersi mantenere in una sorta di stato catatonico, sensibile solo all’immediatezza di un presente di vagabondaggi, di tempi sospesi in spiaggia, di cure e di piacere rappresentato dalla giovane ragazza messicana.

Una seconda svolta si ha quando sulla via dell’aeroporto, dopo la firma dell’accordo sull’eredità, l’automobile della sorella subisce un attacco di rapinatori che sparando la uccidono. Niel viene accusato perché risulta conoscere i malviventi. La cosa non sembra scomporlo, né fa molto per reagire e difendersi da una accusa ingiusta. Il suo rapporto problematico con l’esperienza sembra giungere ad una condizione di radicale estraneità. Viene fatto scarcerare dal console e dall’avvocato, e continua la sua silenziosa ed enigmatica deambulazione in questa zona liminare tra mare, periferia sociale e violenza. L’ultima svolta, quella narrativamente più importante, ci dice che Neil ha un tumore e sta morendo. La sua assenza di vitalità e la sua mancanza di forza si rendono verosimili e si spiegano per un destino oramai segnato e agli altri ignoto. Morirà dunque ad Acapulco.

La sua non è la morte dell’eroe romantico, il cui animo si accorda con una natura sublime e si rende superiore al corpo malato. Qui l’anima si rende pari ad un degrado sociale e ambientale che sembra difficilmente riscattabile, diviso tra capitalismo dominante e allucinatorio (Neil vede perfino maiali squartati) e violenza brutale dei marginali sociali.

Sundown è dunque anche il tramonto dell’Occidente che va a scomparire in quei Paesi oggetto di continua colonizzazione economica e culturale. Il film, proprio mostrando in molti passaggi i rischi di una estetizzazione di tale cortocircuito tra capitalismo globale e degrado socio-culturale (disseminando ambiguità e trappole), ci fa vedere anche il tramonto definitivo di un mito fondativo della cultura occidentale, cioè la sua capacità di parlare e “adottare” un “fuori da sé”.

Sundown. Regia: Michel Franco; sceneggiatura: Michel Franco; fotografia: Yves Cape; montaggio: Oscar Figueroa Jara, Michel Franco; scenografia: Claudio R. Castelli; costumi: Gabriela Fernández; interpreti: Tim Roth, Charlotte Gainsbourg, Iazua Larios, Henry Goodman, Albertine Kotting McMillan, Samuel Bottomley; produzione: Teorema; origine: Messico, Francia, Svezia; durata: 83′; anno: 2021.

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