In a field
I am the absence
of field.
This is
always the case.
Wherever I am
I am what is missing.
When I walk
I part the air
and always
the air moves in
to fill the spaces
where my body’s been.
We all have reasons
for moving.
I move
to keep things whole.
Mark Strand, Keeping things whole
Un concetto filosofico reale, diremo con Wittgenstein, più che essere principalmente se non esclusivamente un‘entità del pensiero rappresenta piuttosto una nuova «forma di vita», cioè un diverso e innovativo modo di stare al mondo, di vivere e amare, di sentire e parlare. In questo senso definiamo campo deleuziano la peculiare forma di vita inaugurata da Gilles Deleuze. Nel suo celebre saggio L’immanenza: una vita… Deleuze chiama «campo trascendentale» una «pura corrente di coscienza a-soggettiva, coscienza pre-riflessiva impersonale, durata qualitativa della coscienza senza io» (2010, p. 320). Anche se la definizione sembra ancora troppo soggettivistica (è sì un «campo», ma «trascendentale», un aggettivo troppo carico di kantismo per non destare sospetti di dualismo), subito dopo Deleuze precisa che «il campo trascendentale si caratterizza come un puro piano di immanenza, in quanto si sottrae a ogni trascendenza, tanto a quella del soggetto che a quella dell’oggetto». In questo senso il «campo trascendentale» è «pura immanenza» che «è in sé: non è in qualche cosa, a qualcosa», e poi ribadisce che «non dipende da un oggetto e non appartiene a un soggetto». Questo campo (che sempre meno si capisce perché debba essere «trascendentale»; in effetti questo è ben poco trascendentale) è infatti una «pura immanenza», cioè «è una VITA, e nient’altro. Non è l’immanenza alla vita, ma l’immanenza che non è in niente è una vita. Una vita è l’immanenza dell’immanenza, l’immanenza assoluta: è completa potenza, completa beatitudine» (ivi, p. 321) (è beatitudine perché non manca di nulla, la vita è sempre a suo modo perfetta).
«Immanenza assoluta» significa che non è più possibile distinguere, ad esempio, fra un animale e la vita che vive, ossia fra la sua “essenza” (il genotipo) e il suo comportamento (fenotipo), fra il che che-cos’è e il che-cosa-fa. L’animale non è altro dalla vita che vive, così come non esiste una vita che non si incarni in un vivente. Forse la migliore descrizione di che cosa sia l’immanenza la possiamo trovare nel brevissimo e fulminante racconto di Kafka, Desiderio di diventare un indiano: «Se si fosse almeno un indiano, subito pronto e sul cavallo in corsa, torto nell’aria, si tremasse sempre un poco sul terreno tremante, sicché si lasciavano gli speroni, perché non c’erano speroni, si gettavano via le briglie, perché non c’erano briglie, e si vedeva appena la terra innanzi a sé come una brughiera falciata, ormai senza il collo e la testa del cavallo» (Kafka 2009, p. 135). Ecco cos’è «l’immanenza assoluta», la vita che si vive, al di là della distinzione fra soggetto e oggetto, fra cavaliere e cavallo, fra cavallo e galoppo, fra galoppo e prateria. Nel campo deleuziano è un campo unitario, è appunto il viversi riflessivo della vita vivente.
Ma perché abbandonare il confortante e tradizionale dualismo fra essenza e manifestazione, fra essere e fare, fra soggetto e oggetto? Per abbracciare una visione del mondo e della vita assolutamente mondana, senza l’al di là della trascendenza (si crede in un altro mondo perché non si crede in questo mondo), per una vita tutta vissuta, terra terra, un mondo pieno di sorprese e di invenzioni inattese. In questo senso il modello scientifico del «campo deleuziano» è il campo gravitazionale in quanto superamento definitivo del dualismo fra la materia e l’energia, cioè appunto fra ciò che c’è e quello che può fare ciò che c’è. Come scrivono Einstein e Infeld nell’Evoluzione della fisica: «Si ha materia ove la concentrazione dell’energia è grande; si ha campo ove la concentrazione dell’energia è debole. Ma se è così, allora la differenza fra materia e campo appare d’ordine quantitativo, anziché qualitativo. Non ha senso attribuire alla materia e al campo qualità nettamente diverse. Non possiamo figurarci una superficie ben delimitata, che separi distintamente campo e materia» (Einstein, Infeld 1965, p. 227) . Non c’è la materia da un lato, e l’energia dall’altro, come invece vorrebbe il più antico e tenace dei nostri dualismi: avremo «in tal modo […] un nuovo sfondo filosofico […] [e] da tale punto di vista, un sasso lanciato in aria è un campo variabile nel quale gli stati di maggior intensità del campo attraversano lo spazio con la velocità del sasso stesso. Nella nostra nuova fisica non vi sarebbe allora più posto per il binomio campo e materia; non rimarrebbe che una sola realtà: il campo» (ivi, p. 228). È un esempio bellissimo, affatto deleuziano, non c’è un sasso che vola per aria (come se materia ed energia potessero appunto essere separate), c’è piuttosto un «campo variabile», cioè c’è materia che diventa energia, energia che diventa materia. Il «campo deleuziano» non è una grande “scatola” che contiene gli oggetti del mondo, al contrario, gli oggetti sono in realtà eventi del campo, perché non esisterebbero al di fuori di quello stesso campo.
Vediamo allora un prato, alberi e palazzi sullo sfondo, una notte cittadina, quindi illuminata, nebbiosa, c’è un fiume lì vicino, silenzioso e indifferente. Uno spazio aperto. Aperto vuol dire che dei ragazzini ci possono giocare a pallone, oppure che delle pecore possono pascolare liberamente mentre il pastore le controlla riparato sotto un albero (a Roma succede più spesso di quanto non si pensi), o ancora che qualcuno ci porti dei cani a correre, mentre di notte qualcuno ci si apparta per fare l’amore. Aperto, allora, vuol dire che è un ambiente che permette e sollecita molte e diverse attività, umane e non. Ma può darsi il caso che in quel campo non succeda niente? In questo caso il campo è forse “vuoto”? Un campo può essere vuoto? Chiariamo qual è l’impensato implicito in questa domanda. Se un campo senza umani (e animali) è vuoto, questo significa che si continua a pensare il mondo come ad una sorta di palcoscenico per le azioni degli esseri umani (e, se siamo ecologicamente generosi, degli animali non umani, in particolare i mammiferi, cioè gli unici animali che gli umani prendono in considerazione). E questo significa che non ci liberiamo del dualismo che separa gli umani dal mondo, la trascendenza dall’immanenza, la coscienza dal corpo.
Ma un campo non è mai vuoto. C’è sempre vita in un campo. Sempre, campo è la vita stessa. Perché la vita è inseparabile dal campo; il campo, come dice Deleuze, infatti «è una VITA, e nient’altro». In effetti un campo non è propriamente un luogo, ossia un contenitore separato dal contenuto che può accogliere al suo interno. In realtà vale il contrario, se non ci fosse il campo non potrebbe esserci vita. Pensiamo proprio al caso dei ragazzini che giocano a pallone. L’evento gioco-a-pallone non può darsi se non accade in un campo, inteso appunto come spazio disponibile (fra l’altro) al gioco. C’è di più, perché un bambino senza campo e pallone propriamente non è un bambino. In realtà il bambino che gioca a pallone è un modo di essere del campo, così come la pecora che bruca è un’altra manifestazione del campo. Perché non esiste il BAMBINO, come essenza astorica e trascendente della “bambinità”: esiste un bambino che insegue un pallone in un prato, come esiste un bambino che si annoia in classe (anche la classe è un campo), o un bambino che parla con un altro bambino nel cortile della scuola. Il bambino, cioè, così come la pecora, è un modo di esserci del campo. È il campo che si individua in un bambino, o in una pecora appunto, non il bambino che gioca nel campo. In questo senso il campo non è mai vuoto.
Ma questo significa che il vuoto non esiste. In effetti se ci fosse il vuoto, come farebbero a incontrarsi e formarsi gli assembramenti, come quello del bambino e del pallone? In generale il campo è come «un alveare pullulante di attività» (Barrow 2002, p. 237), come scrive il matematico John Barrow (che parla del campo quantistico, ma questa descrizione vale evidentemente anche per quelle particolari entità quantistiche che sono i bambini). Il campo, allora, per un verso preesiste ai corpi che prendono vita al suo interno e che anzi, come abbiamo appena visto, assumono le caratteristiche che hanno proprio perché “emergono” da quel campo in quella particolare situazione, ma contemporaneamente coincide con quello che accade in quello stesso campo: perché il campo è materia ed energia allo stesso tempo. Per questa ragione il campo non è mai vuoto, nel senso di essere un puro nulla, una semplice e triste assenza di qualunque altra cosa. In un generico contenitore si possono mettere tutti i “contenuti” che può contenere. Che sia acqua o semi di zucca, il contenitore non influisce sul contenuto. Al contrario, un campo entra nella costituzione delle entità che “vivono” dentro il campo. Il bambino nel campo, ad esempio, non è affatto lo stesso bambino in classe o nel salotto davanti alla TV con i suoi genitori. Il campo “partecipa” alla vita delle entità che lo popolano, entità che sono appunto inseparabili dal campo stesso. Ma questo significa che in ogni campo possono succedere eventi inaspettati, ad esempio l’assembramento bambino-pallone, o quello pecora-erba, ma anche quello scarabeo-pallone. Il campo è “creativo”.
Il campo deleuziano è creativo proprio perché non è un contenitore. Qual è allora la prestazione specifica del campo? Si potrebbe sostenere, come vuole una tradizione che risale ad Aristotele, che il campo è potenzialmente il bambino-pallone, oppure la pecora-erba, o ancora il cane-cane. La «potenza», infatti, è la δύναμις che si collega all’«atto», cioè alla ενέργεια: «È atto l’esistenza reale dell’oggetto in un senso diverso da come diciamo che l’oggetto è in potenza. Noi diciamo ad esempio che Ermete è in potenza nel legno» di una statua. L’esempio della statua è chiaro: finché la statua non esiste realmente la «potenza» – la possibilità che ci sia una statua di Ermete – è appunto nient’altro che “potenziale”, qualcosa che è soltanto una “ombra” di reale, chiusa nella mente dello scultore. Infatti, per Aristotele «risulta chiaro che l’atto è anteriore alla potenza» (Aristotele 1049b, p. 4) dal momento che qualcosa «in tanto è potenziale in quanto è suscettibile di attuazione» (1048a, pp. 12-13). Secondo questa visione il singolo evento, ad esempio quello del bambino-pallone, doveva esistere potenzialmente prima di realizzarsi – di attualizzarsi – nel campo. In realtà questo modo di intendere il campo lo priva della capacità di essere produttivo di qualcosa di realmente sorprendente, cioè di eventi che non esistevano nemmeno potenzialmente. In effetti non si può sapere in anticipo che cosa succederà nel campo, proprio perché il campo non è mai vuoto, non è mai, cioè, un semplice contenitore, al contrario, in ogni momento è «un alveare pullulante di attività». La vita non è qualcosa che esiste in potenza e che poi si realizza praticamente: al contrario la vita “nasce” sempre dall’incontro, dall’assembramento, del campo e di un particolare ente. In questo senso la vita è sempre una sorpresa, una novità, un evento creativo.
«Il mondo è carne», scrive Merleau-Ponty nel Visibile e l’invisibile: la «carne» è quello che qui chiamiamo «campo», cioè il sostrato vitale e vitalizzante di ogni assembramento. «Il mondo è campo, e a questo titolo sempre aperto» (Merleau-Ponty 1993, p. 202). Anche il concetto di «carne» non è pensabile attraverso la coppia potenza/atto. Come abbiamo appena visto ci interessano gli eventi imprevedibili che hanno luogo nel campo. Deleuze si riferisce a questo elemento che sfugge alla coppia metafisica potenza/atto come al «virtuale», che infatti «non è subordinato al carattere globale che involge gli oggetti reali, dato che non solo per la sua origine ma nella sua propria natura, il virtuale è brandello, frammento, spoglia, non rispetta la propria identità» (Deleuze 1997, p. 132) . È per questa ragione che il «virtuale» non è in attesa dell’atto, perché non ha una «propria identità» preesistente da attualizzare. Questo significa che ogni evento che accade nel campo non preesisteva come potenza da realizzare, al contrario, ogni è un evento che accade in quel momento, e che un istante prima nulla annunciava che potesse accadere proprio in quel momento. Per questa stessa ragione il «virtuale» è un «brandello», cioè appunto non è già (pre)formato come una certa determinata entità, dotata di particolari caratteristiche; è solo un «frammento» senza identità prestabilita.
Per questo, ancora, «il solo pericolo è di confondere il virtuale con il possibile, dato che il possibile si oppone al reale, e il processo del possibile è quindi una “realizzazione”. Il virtuale, viceversa, non si oppone al reale, possiede di per sé una realtà piena, e il suo processo è l’attualizzazione» (ivi, p. 273). La differenza fra «realizzazione» e «attualizzazione» è la differenza che passa fra qualcosa che già esisteva (anche se solo in potenza) prima di essere effettivamente realizzato, e qualcosa che, invece, non esisteva in nessuna forma prima di attualizzarsi nel campo: «L’attualizzazione del virtuale avviene sempre per differenza, divergenza o differenziazione. […] In questo senso l’attualizzazione, la differenziazione è sempre un’autentica creazione, non si dà per l’imitazione di una possibilità preesistente» (ivi, p. 274). L’attualizzazione è l’accadere del nuovo. Ogni evento è una assoluta novità. Si tratta ora di capire come possano formarsi degli eventi inaspettati e sorprendenti.
La «carne del mondo» di cui parla Merleau-Ponty è intessuta degli assembramenti bambino-pallone, pecora-erba, albero-ombra, nebbia-lampione e così via che prendono vita nel campo. La figura fondamentale del campo della «carne» è, per Merleau-Ponty, il «chiasma» che consiste nel «cogliere ciò che fa sì che l’uscire da sé sia rientrare in sé e viceversa» (Merleau-Ponty 1993, p. 215). L’accettazione del «chiasma» segue direttamente dall’esclusione della possibilità che esista qualcosa come «un sorvolo assoluto», cioè una posizione esterna al campo stesso (il campo deleuziano esclude la trascendenza, ossia il tirarsi fuori dal mondo). Una volta che il campo è l’originario possono finalmente emergere una molteplicità di agenti virtuali proprio perché ci si è liberati dell’ingombrante posizione privilegiata (trascendente) del punto di vista umano. In effetti questo punto di vista ha bisogno, per giustificare la propria eccezionalità, di presumere l’esistenza di un mondo di cose passive a sua disposizione. Una volta che non c’è più necessità di salvaguardare la posizione umana possono venire al mondo tutte le altre agentività che Homo sapiens non tollera: finalmente si può accettare che «non siamo noi a percepire, è la cosa a percepirsi laggiù […]. Divenire natura dell’uomo che è il divenire uomo della natura – Il mondo è campo, e a questo titolo sempre aperto» (ivi, p. 202).
Il campo deleuziano è un campo denso di virtualità vitali, che non appartiene ad un soggetto ma che non è nemmeno una semplice distesa di oggetti in un contenitore neutrale, un campo creativo, un campo pieno – per questo è «completa beatitudine», perché è saturo di vita – che non desidera e non rimpiange, che non teme nulla ma nemmeno deve mostrare coraggio. Il campo deleuziano è l’avventura di chi smette di diffidare del mondo: «Il fatto moderno è che noi non crediamo più in questo mondo. Non crediamo neppure agli avvenimenti che ci accadono, l’amore, la morte, come se ci riguardassero solo a metà […]. Solo la credenza nel mondo può legare l’uomo a ciò che vede e sente» (Deleuze 1989, pp. 191-192) .
Riferimenti bibliografici
Aristotele, Metafisica, a cura di A. Russo, Laterza, Bari 2002.
J. Barrow, Da zero a infinito. La grande storia del nulla, Mondadori, Milano 2002.
G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Ubulibri, Milano 1989.
Id., Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina, Milano 1997.
Id., Due regimi di folli e altri scritti. Testi e interviste 1975-1995, Einaudi, Torino 2010.
A. Einstein, Leopold Infeld, L’evoluzione della fisica, Boringhieri, Torino 1965.
F. Kafka, Desiderio di diventare indiano, in Tutti i racconti, Mondadori, Milano 2009.
M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 1993.
M. Strand, Keeping things whole, in Collected Poems, Knopf, New York 2016.