Un uomo in preda ad amnesia totale sfoglia alcune fotografie di donne. Mentre i suoi occhi passano in rassegna corpi e volti stampati sulla pellicola, sullo schermo si palesa di fronte a noi una sequenza di immagini d’archivio: primi piani di sorrisi femminili, sguardi, capelli al vento, tutti fatti di paste diverse, spazi e tempi distinti. La voce fuori campo del protagonista cerca di fermare in parola la prima impressione visiva della donna che ha amato, stesa sugli scogli, “la forma più bella” mai vista prima. Ora però, guardando quei volti fotografati – che allo spettatore restituisce in un ideale controcampo il montaggio d’archivio – gli sembrano “tutti uguali”.
Gian ha perso la memoria, non trova nel magma di immagini che gli (ci) si presenta un profilo riconoscibile, in cui possa specchiare una parte della sua vita. Tuttavia, forse in modo più sottile, è l’archivio stesso, nel suo popolarsi di volti anonimi, provenienti da una nebulosa senza coordinate, a rappresentare in modo intrinseco una memoria vaga, che non chiede di essere trattenuta attraverso identità specifiche ma invita al contrario a perdersi in una dimensione ulteriore, lanciata oltre il singolo ricordo verso l’atto universale di immaginare una storia, anche la propria.
È forse questo più di ogni altra cosa che vuole dirci il primo lungometraggio di Sara Fgaier, Sulla terra leggeri, in un certo senso proseguendo, se pur nel dominio della finzione, una riflessione iniziata ne Gli anni (2018), mediometraggio esclusivamente di montaggio in cui l’autrice indagava, attraverso le parole dell’omonimo romanzo di Annie Ernaux, la capacità femminile di proiettarsi su altre donne riconoscendosi nelle «figure vaghe» che appaiono nei repertori.
È precisamente la “vaghezza” dell’archivio, l’indistinzione nominale delle creature che lo vivono, a dischiudere la libertà di cui ha bisogno una memoria monca come quella di Gian, professore di etnomusicologia che ha appena perso la moglie, per tornare ad abitare la sua vita. Il trauma gli ha procurato un’amnesia improvvisa e la figlia e il nipote restano a vivere con lui per assisterlo. La figlia trova alcuni diari e diverse fotografie che gli offre per tentare di ricostruire il suo passato. Tra questi un diario di molto tempo prima, quando Gian era solo un ragazzo e aveva incontrato sulla scogliera Leila, una giovane aviatrice tunisina con cui aveva passato il tempo di una notte prima di salutarla sui binari subito sopra le loro teste, sull’altra sponda del lungomare, promettendosi un appuntamento cinque mesi dopo a Tunisi al quale la donna non si sarebbe presentata. Le loro strade, a quanto l’uomo trova scritto nel diario, si sarebbero poi più volte incrociate, dal vivo o solo nei sogni di entrambi, per molto tempo, sino a un reciproco “ritrovarsi”.
Il medesimo processo di “ritrovamento” deve attivarlo ora Gian nei confronti di se stesso, proprio a partire da quello che sembra essere stato l’incontro più denso di significato della sua intera vita, uno dei pochi che continua negli anni a ricordargli chi sia – come scrive.
L’evoluzione del ricordo viene accompagnata da Fgaier così su tre livelli: il piano del presente storico, nella casa dove il vedovo si aggira senza punti di riferimento, spaventando a tratti figlia e nipote; quello del passato ricostruito dalla cineasta finzionalmente, la notte passata con Leila e i successivi incontri; e il terzo, quello dell’archivio, che accumula immagini al servizio di una memoria che ha bisogno di nutrimento per riattivarsi. In una sequenza all’inizio del film i tre piani ci appaiono persino in un sorprendente piano sequenza senza soluzione di continuità: lo sguardo della macchina transita dal salotto in cui Gian sta riguardando foto e diari, alla camera dell’uomo quarant’anni prima, in cui quest’ultimo sogna quell’incontro ad occhi aperti, alla parete della stanza sulla quale, come su un telo bianco, parte la proiezione di una sequenza che diventa poi, a inquadratura piena, uno dei primi montaggi d’archivio.
Di qui in poi i tre tempi coesistono spesso anche all’interno di un solo piano visivo, cristallizzando attuale e virtuale, presente e passato, attraverso giochi di trasparenze (vetri, specchi) in cui evidentemente risuona l’eco deleuziana. Così come il continuo gioco della voce-off sulle immagini, muovendosi in un tempo discontinuo, mescolandosi a volte con la non sincronica voce-in tra i due giovani amanti, omaggia almeno istintivamente l’atmosfera amnesica di un’altra avventura romantica, nei corridoi e sui terrazzi di Marienbad.
Fin quando le immagini bruciate da una memoria confusa (Gian le brucia letteralmente nel caminetto) tornano ad avere un senso in una sequenza puramente allegorica, quando l’uomo scorge in fondo ad un tunnel – in una scena à la Orfeo ed Euridice molto simile alla sequenza finale del recente La chimera di Alice Rohrwacher – la luce che lo riconduce a casa.
In modo ancora più radicale, potremmo dire che l’archivio diventa nel corso del film primo fautore di quella “leggerezza” richiamata dal titolo e subito ripresa nella citazione da Livelli di vita di Julian Barnes posta in esergo al film: «Siamo creature destinate al piano orizzontale, a vivere con i piedi per terra, eppure – e perciò – aspiriamo ad elevarci». Questo l’altro grande tema del film: l’amore come un atto verticale, di coraggio e di rinascita, che si sgrava del peso di un qualsiasi precedente radicamento per librarsi verso altezze – o profondità – sconosciute, arie mai respirate.
Sono proprio le immagini di repertorio a raccogliere da un certo momento in poi questa istanza, abbandonando definitivamente una parvenza di legame diegetico con la narrazione e diventando pure sensazioni, quasi che quella vaghezza della memoria servisse per tornare a definire non tanto (o non solo) dei nomi, dei volti, dei gesti, ma soprattutto una nuova carne attraverso cui sentirsi.
Ecco allora che a farsi ebbro, lieve, è proprio l’archivio, accogliendo dentro di sé immagini di voli – deltaplani, mongolfiere, aereomobili, corpi liberi – o, in direzione inversa ma speculare, tuffi verso gli abissi marini – membra che si aggrovigliano nella schiuma, spingendosi sempre più in giù, perdendo definizione e sfiorando la soglia del non umano.
In fondo, associando l’ubriacatura data dalla passione amorosa al decollo figurale dei repertori lungo una retta che combatta l’orizzontalità della narrazione in favore di una costante verticalità immaginativa, la regista ci dice implicitamente che la prima vertigine è proprio la sua, intenta a innamorarsi di immagini che piano piano – anche nella sua coscienza, e non solo in quella di Gian – compongono una storia. Forse, come era ne Gli anni, anche la sua.
Sulla terra leggeri. Regia: Sara Fgaier; sceneggiatura: Sara Fgaier, Sabrina Cusano, Maurizio Buquicchio; fotografia: Alberto Fasulo; montaggio: Aline Hervé, Sara Fgaier, Enrica Gatto; musiche: Carlo Crivelli; interpreti: Andrea Renzi, Sara Serraiocco, Emilio Francis Scarpa, Lise Lomi, Maria Fernanda Cândido, Stefano Rossi Giordani, Amira Chebli, Elyas Turki; produzione: Limen, Avventurosa, Dugong Films, Rai Cinema; distribuzione: Rai Cinema International; origine: Italia; durata: 94′; anno: 2024.