L’eredità di un «nuovo tipo di buffone»Avevo cinque mesi quando Pasolini è stato ucciso. Appartengo alla classica generazione di mezzo. In ritardo sul passato, del quale eredita, a sua insaputa, soltanto l’agonia. In difetto col presente, sacrificato alla contesa tra gli opposti sentimenti di un’indotta nostalgia per non vissute ere mitizzate e dell’affezione istintuale per una foga d’avvenire degradata a passione per il nuovo purché sia. Orfana, giocoforza, di un futuro che per lei non può darsi né quale reviviscenza di età defunte mai esperite, né quale adempimento di un qui e ora che sfugge facilmente alla messa a fuoco della sua strabica coscienza, né quale concrezione di un impensato che le viene naturale scambiare per variante fraintesa del già accaduto, per retorica ottusa di un ulteriore domani ancora di là dal materializzarsi o per confuso impasto dell’una e dell’altra diversione dal reale.

Ero un quattordicenne quando è caduto il Muro di Berlino: dei partiti di massa, delle grandi narrazioni e delle culture di appartenenza, della vita civile e dei conflitti sociali, della politica tutta come il Novecento l’aveva intesa, ho fatto appena in tempo a conoscere i disforici o gli autoreferenziali colpi di coda. Sono dunque cresciuto assieme a quelle frenesie cesariste che, già fatte proprie dalla cricca craxiana, in Italia hanno però trovato una loro prima, appagante condensazione nel berlusconismo: in quello ancora immaginario, veicolato fin dall’alba degli anni ottanta dalle televisioni commerciali possedute o controllate dal Cavaliere, e in quello politico, resosi bipartisan durante il ventennio inaugurato dalla discesa in campo di costui. Per poi raggrumarsi, tali autoritari umori futuristici e al contempo millenaristi, in quella varietà di orientamenti qualunquistici o sovranisti o genericamente antipolitici che stanno tuttora rendendo il populismo non un avversario, ma il miglior alleato dell’unico orizzonte culturale rimasto vivo in Occidente. Un mefistofelico orizzonte sempre pronto ad arginare qualunque, e sia pur sgangherata, risorgiva utopistica: un sanguinario ultraliberismo neo-schiavista, padrone incontrastato di quasi ormai compiute post-democrazie tribalizzate.

I primi due anni del liceo classico, qui da noi, li si chiamava ancora quarto e quinto ginnasio, mentre frequentavo, di tale percorso formativo, una versione però posticcia; e gli studi universitari – già inclini a celebrare parcellizzate nozioni settoriali, invece che a proporre spregiudicate ipotesi di conoscenza interdisciplinare – li ho conclusi appena prima che, con l’entrata in vigore della Riforma Berlinguer, venissero istituite una laurea triennale e una laurea specialistica. Mi son quindi ritrovato a insegnare, in vari istituti di istruzione superiore di secondo grado o in accademia, percependo due volte inadeguata la mia preparazione: rispetto all’esanime modello di sapere integrale cui ero stato per inerzia educato da allievo; rispetto al quantificabile pacchetto di precise abilità e misurabili competenze che, da docente, mi si chiede ogni giorno di erogare ai discenti o di costruire assieme a loro.

Figlio di un baby boomer garantito, nella propria ascesa sociale, da tutele socialdemocratiche oggi estinte, nel mondo dell’impiego ci sono peraltro entrato che questo mondo non c’era già più. A rimpiazzarlo, una precarizzazione e soprattutto una svalutazione socioculturale del lavoro pronte a convertire quest’ultimo, da potenziale strumento di emancipazione individuale, in tempo costantemente invocato, episodicamente ottenuto, forzosamente speso dai soggetti non per scoprire, rinsaldare, compiere la propria identità (anche solo di elemosinieri al cospetto di una risorta, esigua casta di signori feudali), ma per frantumarla, alienarla, perderla in ansimanti, sbeccati, coartati tasselli di fragile sussistenza civile, emotiva, sentimentale.

Ho scoperto Pasolini non da ragazzo ma a vent’anni, grazie a un corso di Carla Benedetti che fungeva da anticipazione di un fortunato pamphlet della mia futura relatrice di tesi. E in lui riconoscevo – con e contro quel libro – un autore che m’intrigava, e continua a catturarmi, non per la sua presunta proposta di “letteratura impura” (comunque affidata ad opere sovente in contraddizione con le loro stesse premesse teoriche, quali che fossero) e, tutto sommato, neppure per le opinioni esposte nei più noti fra i suoi saggi (opinioni – molte volte ricalcate su celebri intuizioni altrui – quando persuasive e quando, ai miei occhi, troppo vicine ai canonici stilemi del pensiero conservatore). Un autore che invece mi colpiva, e ancora m’interessa, per una sua specifica attitudine speculativa, capace di suggerire flebilmente qualcosa alla mia generazione, in bilico tra arrendevole cinismo e codarde illusioni, perché tale da apparentarlo ai cultori di un disincanto sempre però combattivo, piuttosto che laddove si tende abitualmente a collocarlo da quasi cinquant’anni a questa parte: tra gli indomiti eroi civili convinti di giovare immantinente, con la propria ricerca del vero o con i propri slanci utopistici, all’intera loro comunità d’appartenenza.

L’eredità di un «nuovo tipo di buffone»

Il “mio” Pasolini, quello che si lascia definitivamente alle spalle Poesie a Casarsa (1942), Ragazzi di vita (1955), Le ceneri di Gramsci (1957), quanto più teme la tradizione umanistica a un passo dalla sterilità sociale, tanto più su di essa scommette per decifrare il proprio tempo. Quanto più considera la letteratura un discorso pubblicamente decaduto, tanto più opta, nei propri lavori, per una parola solo all’apparenza diretta, giacché invece, nei suoi testi, ogni infrazione degli abituali codici narrativi o poetici e, non meno, qualsiasi aggressione allo stile, condotta – come in Trasumanar e organizzar (1971) – «per ragioni pratiche», s’incaricano di guadagnare al «Falsetto» (Pasolini 2003, pp. 76, 64) territori espressivi fin lì inesplorati, rovesciando ciascun gesto, cioè qualunque attitudine performativa, in maniera, ossia in predilezione per bulimici centoni. Quanto più conviene di dover reputare il letterato una figura culturalmente estinta, tanto più cuce sull’esibizione della propria arte e del proprio corpo di poeta la sua ambizione di pur negletto intellettuale civile. Quanto più dichiara invincibile il capitalismo, tanto più cerca – non sempre lucidamente e, infatti, di volta in volta rettificando il tiro – di indicare spericolate vie di fuga, inclusa quella che sul finire maggiormente lo seduce: lo spettro di un’apocalisse che giunga a cancellare intero l’orrore del mondo intero.

E a guidarlo è sempre, in queste e altre sue deliberazioni, una medesima confessione d’impotenza, non a discapito ma in virtù della quale autorizzarsi a rischiare un irrelato salto nell’utopia da intendersi, però, come un consapevole, generosissimo balzo nel vuoto. Perché quando nulla sembra più possibile, e niente si dimostra ormai capace di smentire tale impasse, giunge allora il momento se non altro di pronunciarlo, l’impossibile, e di pronunciarlo, magari, in sovreccitati toni umoristici, appunto in quanto calembour «di un nuovo tipo di buffone» – ci insegna ancora Trasumanar e organizzar (ivi. pp. 59-60). L’ultimo Pasolini, insomma, non in veste di redivivo Socrate – quale egli pur si ritrae nelle Lettere luterane (1976) –, ma nei panni di un risorto Swift – altro modello che spesso affiora nei suoi “canovacci” degli anni settanta – tenacemente incline a concepire l’utopia solo al pari di un ironico, e autoironico, paradosso logico rispetto alle inderogabili, alle intramontabili meccaniche di un cannibalico dominio. Sino a correre addirittura il rischio di apparire ciò che egli infine apparve, non senza una qualche ragione, a Fortini: un moralista sospinto, dal proprio cattolicesimo di fondo, nella spirale del nichilismo (Fortini 2003, p. 1699).

Di per sé, la letteratura non ci ha mai salvato da nulla: tantomeno ci salverà dall’estinzione. Fin qui ha saputo giovarci solo quando si è dimostrata l’incontro – per citare Sartre – di due libertà necessariamente complementari: quella dello scrittore «di dire tutto» e quella del lettore «di cambiare tutto» (Sartre 1995, p. 114). La prima di tali libertà sembra oggi subire un irreparabile processo di deflazione, dovuto all’ormai cronica marginalità socioculturale di una letteratura che, pur di sopravvivere e di attirare la saltuaria attenzione del pubblico, accetta di sacrificare la propria identità, di sottomettersi a logiche discorsive ad essa estranee, di dissolversi in retorica esclusivamente comunicativa. La seconda delle succitate libertà, ancor prima che dalle crescenti restrizioni dei diritti individuali sancite da ordinamenti politici sempre più timocratici, appare attualmente compromessa, invece, dalle attitudini stesse di cittadini avvezzi a giudicare insoddisfacibili i propri desideri di autorealizzazione, a ritenere congenita la loro condizione di sudditi, a pretendere dal sistema null’altro che forme, comunque minime, di risarcimento immaginario per quel senso di frustrazione dal quale si percepiscono schiacciati.

In un simile contesto, guardare ancora a Pasolini non significa, per chi scrive come pure per chi legge, anzitutto preferire o auspicare forme il più possibile contaminate, oltranzisticamente spurie, di letteratura, in ossequio all’idea che solo in tal modo quest’ultima saprà mostrarsi nuovamente capace di misurarsi col mondo e di interpellare, spronandoli a radicali esami di coscienza, gli interlocutori. Una preoccupazione e un gusto siffatti, specie se promossi al rango di valori espressivi assoluti, rischiano semmai di avallare e persino di accelerare, senza ambire a smentirlo o almeno a rallentarlo, quel processo, già da tempo in atto, di tirannica riconversione del codice letterario in linguaggio, tra i tanti altri, di un onnipervasivo indotto massmediatico abile a negare opportunità autentiche di autonoma parola, e compiuto pensiero, ai fruitori. In un’epoca – ci rammenta un racconto firmato da Pecoraro qualche anno fa, ma da poco ripubblicato – che vede gli autori travolti dalla propria «stessa libertà di scelta»; ambire perciò ad «essere tutto»; bramare – appunto perché, «se ogni cosa artistica equivale a qualsiasi altra, scegliere è impossibile» – nulla di meno che «l’inclusività totale»; finire spesso col perdersi «nella contemporaneità, nell’istante, nell’evento» (Pecoraro 2021, pp. 241-243).

Invece, ciò che da Pasolini vale tuttora la pena ereditare è – in termini sartriani – l’ossessiva lotta per l’«autonomia» di una letteratura sentita non come «mezzo», ma quale «fine incondizionato» (Sartre 1995, p. 109), pur dopo averne accettato l’eclissi civile e anzi impegnandosi a trasformare questa débâcle, senza mai denegarla, in una spiazzante occasione di parola tanto fuori dal coro, e così inattuale nella propria indifferenza ai vincoli dell’alfabeto sociale, da poter favorire l’insorgenza, nei lettori, di prospettive di senso e narrazioni culturali non meno eretiche. Non meno attente a mettere in dubbio la legittimità dell’autocratico ordine costituito.

Più torno a leggerlo, più dunque mi si conferma anzitutto Petrolio (1992) – quel labirintico museo tirato su soltanto «per ridere», giacché esclusivamente capace di rimandare «a se stesso» (Pasolini 1998, pp. 1637, 1204) – l’opera di Pasolini da tenere con me, con noi, in quest’era non di visionari maestri di ironia tragica, ma di elegiache rassegnazioni all’esistente.

L’eredità di un «nuovo tipo di buffone»

Riferimenti bibliografici
C. Benedetti, Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura, Bollati Boringhieri, Torino 1998.
Id., La letteratura ci salverà dall’estinzione, Einaudi, Torino 2021.
F. Fortini, «Petrolio», in Id., Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Mondadori, Milano 2003.
P.P. Pasolini, Petrolio, in Id., Romanzi e racconti, vol. 2, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 1998.
Id., Trasumanar e organizzar, in Id., Tutte le poesie, vol. 2, a cura di W. Siti, Mondadori, Milano 2003.
F. Pecoraro, Tecnica mista, in Id., Camere e stanze, Ponte alle Grazie, Milano 2021.
J.-P. Sartre, Che cos’è la letteratura?, il Saggiatore, Milano 1995.

*In copertina un murales di Zilda.

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