Si dice spesso – a volte a proposito, altre volte a sproposito – che la pandemia ha cambiato o sta comunque cambiando tutto. Sono quelle frasi a effetto, buone per un talk show televisivo, di cui non si capisce bene però il senso: posto che il “tutto” si dà solo in una visione metafisica, oppure a patto di aver chiarito preliminarmente i criteri che guidano e “mirano” la nostra “intenzionalità” sul mondo, resta infatti da chiarire cosa o chi dovrebbe cambiare o essere già cambiato. Le cose non vanno meglio quando il giudizio viene riformulato nei termini di una “profezia” a proposito della “nuova normalità” che ci attende dietro l’angolo o in cui staremmo già vivendo. Anziché chiarire l’intenzione e, per così dire, il pensiero di sfondo di chi parla, quest’ultima espressione aggiunge fosche tinte alla vaghezza dell’altra.

Poiché viviamo tutti – in questo caso l’assolutezza è d’obbligo, perché si tratta di un dato empirico riscontrabile nella quotidianità di ciascuno – una condizione esistenziale straordinaria, fatta spesso di restrizioni e disagi più o meno lievi o gravi, più o meno mirati o estesi (mascherine, coprifuoco, limitazione della circolazione, chiusure anticipate degli esercizi, divieti di riunione ecc.), gli unici elementi concreti cui ci possiamo appigliare per immaginare di cosa si tratti, quando si parla di “nuova normalità”, lasciano intravedere scenari distopici: aumento esponenziale e indiscriminato delle forme di sorveglianza poliziesca; una medicalizzazione pervasiva della vita sotto forma di profilassi sanitaria preventiva; la sostanziale distruzione delle tradizionali forme acquisite di socialità e di cultura, senza una loro adeguata reintegrazione in altre forme (surrogati digitali a parte).

Sia ben chiaro che il mio non vuole essere un discorso negazionista e nemmeno una “decostruzione” dell’apparato medico e delle politiche sanitarie messe in campo per sconfiggere la pandemia. Non si può negare in buona fede che le misure prese sono necessarie, pur con tutto il disagio che procurano e con il risvolto di maggiore o minore ottusità che un atteggiamento “draconiano” porta con sé. La questione è che, come diceva Nanni Moretti con una battuta rimasta celebre, “le parole – e aggiungerei le immagini – sono importanti”. Voglio dire che le retoriche usate e a volte abusate, le metafore impiegate, con le immagini che evocano, e le immagini concrete a volte mostrate, penetrano nel tessuto profondo delle menti di tutti noi e determinano sentimenti, emozioni, paure, opinioni, rabbie e così via discorrendo. Quel che è peggio è che questi traumi lasciano una traccia profonda e ci indurranno nel prossimo futuro e ripensare comportamenti e abitudini in base a quest’esperienza di rottura radicale – e non meno al modo in cui essa è stata narrata e rappresentata.

Sotto questo profilo, il corposo volume Studiare la pandemia. Disuguaglianze e resilienza ai tempi del Covid-19, curato da Domenico Cersosimo, Felice Cimatti e Francesco Raniolo, e pubblicato da Donzelli, è una tra le poche novità positive nel campo della ricerca da quando è scoppiata la pandemia. Si tratta di un volume importante per la varietà dei contributi e degli approcci disciplinari: filosofia, scienze umane (teoria del cinema, storia, storia dell’arte ecc.) e sociali (sociologia, economia, diritto ecc.). È un’impresa ambiziosa anche perché tiene insieme una prospettiva globale (la pandemia), una nazionale e continentale (le politiche di contenimento sanitario e di sostegno economico in Italia e in Europa) e una locale (l’impatto sanitario dell’epidemia e quello sociale ed economico del confinamento su una regione italiana, la Calabria). Si tratta anche, dunque, di un contributo civile, dato che gli autori sono docenti e ricercatori del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università della Calabria.

I curatori individuano con lucidità la posta in gioco nella trappola di ridurre l’emergenza pandemica all’imperativo del primum vivere, deinde philosophari. Si tratta, al contrario, di rivendicare e restituire le condizioni per una riflessione su quali siano le categorie per pensare proprio la vita, anche in condizione di eccezionalità come quelle che stiamo sperimentando. Queste categorie, o meglio queste coppie di concetti in dialettica reciproca, sono ovviamente normalità ed eccezione, libertà e sicurezza, ma anche fatti e messaggi. Non potrò evidentemente toccare tutti i saggi del libro, vista la sua vastità e varietà: d’altronde, mi mancherebbero le competenze per una discussione critica di ognuno di essi. Mi limiterò pertanto ad alcune osservazioni su quelli più prossimi alle mie competenze e ai miei interessi di ricerca.

Nel saggio Covid-19. Come si costruisce un fatto sociale, il filosofo del linguaggio Felice Cimatti decostruisce la nozione di “fatto sociale”. Se per Berger e Luckmann un fatto è sociale nella misura in cui media un punto di vista sulla società accessibile a ciascun individuo, si può allora dire che la “socializzazione” di un fatto passa attraverso una lotta tra le sue diverse interpretazioni, rendendo così ragione di un significato profondo, e tutt’altro che “postmoderno”, del celebre aforisma di Nietzsche, secondo il quale non esistono fatti ma solo interpretazioni. L’ipotesi che l’autore sembra suggerire lascia intravedere un paradosso nella pandemia e nella sua socializzazione: con il profluvio di interpretazioni diverse in circolazione sui media, appare impossibile che emerga un punto di vista riconoscibile e la comunicazione lascia così spazio al trionfo delle fake news.

Ne Il contagio delle immagini, Bruno Roberti compie l’ardita ma riuscita operazione di tornare sulla più controversa presa di posizione filosofica sulla pandemia, quella di Giorgio Agamben, per mostrare che il vero obiettivo di una critica della riforma degli habitus che stiamo subendo da mesi è il modo in cui l’immagine riorganizza, secondo il senso più autentico dell’estetica, la nostra esperienza della realtà. In questa prospettiva, ad esempio, la mascherina non vale più tanto come dispositivo sanitario quanto come “segno” che opera una “dissimulazione”, tale per cui l’“immanenza” (di una condizione di confinamento) diventa l’“imminenza” (di una catastrofe annunciata). E questo dispositivo estetico porta a disattivare quel fondamentale contagio delle immagini, il fatto che le immagini non hanno solo il potere di isolare ma anche di condividere, attraverso cui il cinema ha storicamente espanso l’esperienza collettiva.

In Relazioni, logiche securitarie e dispositivi mediali, Roberto De Gaetano e Angela Maiello insistono sulla stessa ipotesi teorica, mostrando come la modulazione di distanza e vicinanza costituisca il perno attorno a cui si costituisce il senso dell’esperienza. Nel distanziamento globale assoluto che stiamo sperimentando, si produce il paradosso di una compensazione surrogata del desiderio dell’altro attraverso protesi artificiali, come nel caso estremo dell’aumento di vendite dei sex toys. Il cuore del paradosso sta nel fatto che i media moderni, a partire da radio, cinema e fotografia, hanno incessantemente lavorato ad avvicinare gli oggetti a una sempre maggiore esperibilità, come si era perfettamente reso conto Walter Benjamin quando ragionava sulla perdita di aura e l’innalzamento dell’esposizione nelle immagini del cinema. E, tuttavia, tale avvicinamento assoluto si rovescia oggi nel paradosso – nemmeno troppo inaspettato dal punto di vista del Benjamin del saggio sul Narratore – di una perdita d’esperienza nell’isolamento degli utenti chiusi nelle loro case ma collegati alla rete.

In Ripensare il possibile, Paolo Jedlowski si interroga su come la società medi appunto sulle soglie di esposizione ovvero di prevenzione. Fioriscono molti tentativi – spesso assai brillanti, alcuni condotti con successo in questo stesso libro – di ricostruzione delle genealogie del presente. Queste genealogie privilegiano spesso la lunga durata: dalla Peste Nera fino al Covid-19, per insistere sull’arco temporale oggi più evocato. Ma Jedlowski ci riporta a una genealogia più ravvicinata, ma non per questo meno cogente: è quella che porta dal “telelavoro” allo smart working. Questa connessione condensa l’immagine dei rischi di nuove disuguaglianze che si annidano nella ricerca di soluzioni apparentemente d’emergenza e che in realtà rivelano le logiche economiche subito riattivate dalla pandemia.

Domenico Cersosimo, Felice Cimatti, Francesco Raniolo, a cura di, Studiare la pandemia. Disuguaglianze e resilienze ai tempi del Covid-19, Donzelli, Roma 2020.

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