Nella scena iniziale di Spider-Man: No Way Home, in un video registrato poco prima di essere ucciso, Mysterio rivela l’identità del famoso working-class hero originario del Queens. «Spider-Man è Peter Parker», riecheggia sugli smartphone, sui tablet, sugli schermi di tutto il mondo. L’Uomo Ragno, in maschera e tuta d’ordinanza, apprende il clamoroso outing contro sé stesso, tra la folla, di fronte al Madison Square Garden. In un cliffhanger da manuale, il terzo capitolo della nuova saga di Spider-Man, interpretata da Tom Holland e diretta da Jon Watts, inizia dove era stata sospesa la narrazione del precedente Far From Home (2019). Al netto degli evidenti legami narrativi con gli altri due film di questa specifica saga (e, come vedremo, anche delle due precedenti), e accantonando la necessità di contestualizzare gli avvenimenti all’interno del Marvel Cinematic Universe – pensiamo, tra gli altri, ai crossover con Doctor Strange (2016, Scott Derrickson) – No Way Home è soprattutto un film sull’oggi, su cosa è successo al mondo nei due anni che hanno separato l’uscita di questi due capitoli, su come sopravvivere, malgrado tutto, al multiverso delle varianti che ci circondano in varie forme.
Guardare e riflettere su No Way Home in piena quarta ondata di Covid-19 vuol dire cogliere, per forza di cose, l’urgenza dei significati morali e simbolici che il film porta implicitamente con sé. Per certi versi, si tratta di un’opera già cruciale per comprendere la contemporaneità, e lo è per ragioni quasi del tutto esterne all’universo cinematografico Marvel. Pochi altri film del MCU hanno osato, infatti, uscirne così esplicitamente al di fuori, non solo provando a rendersi drammaturgicamente autonomi rispetto agli snodi narrativi della mega-saga, ma soprattutto dialogando con il reale in modo così lucido, incisivo e frontale – vengono in mente, ad esempio, le riflessioni sulla dis-integrazione della società occidentale già avanzate in Black Panther (2018, Ryan Coogler) e il dibattito ecocritico globale che attraversava gli ultimi due Avengers (2018 e 2019, Anthony e Joe Russo), entrambe questioni riprese ed elaborate da una serie, di cui si è parlato forse troppo poco, come The Falcon and the Winter Soldier (2021, Malcolm Spellman).
In questa prospettiva, il nuovo Spider-Man si trasforma così da un semplice film di supereroi con venature da teen drama in una crepuscolare riflessione sugli effetti della pandemia sull’umanità. Non si tratta solo di un indiretto ripiegamento teorico sulla viralità delle immagini che, circolando globalmente come varianti incontrollate, finiscono per svelare al mondo l’identità (e i movimenti) di Spider-Man tramite gli strumenti del capitalismo della sorveglianza (telecamere a circuito chiuso, droni, social network), ma anche su quanto si è disposti a restringere i limiti della propria libertà personale in favore della protezione della salute pubblica.
Per una ragione molto banale, infatti, Spider-Man si ritrova a combattere ben cinque villain involontariamente sradicati da altri mondi. Un incantesimo finito male di Doctor Strange ha aperto alcune linee temporali da cui fuoriescono non soltanto i cattivi, ma anche delle varianti di Spider-Man stesso, provenienti direttamente dalle saghe cinematografiche del passato. Tobey Maguire, protagonista della trilogia di Sam Raimi di inizio millennio, e Andrew Garfield, l’amazing Spider-Man degli anni dieci, si ritrovano così accanto al teen Spider-Man contemporaneo Tom Holland per combattere insieme i nemici storici provenienti dagli altri mondi/film. Non si tratta soltanto di sconfiggere Goblin, Electro, Lizard, Sandman o Doctor Octopus, re-interpretati per l’occasione dagli attori delle saghe originali, ma di “ridurli” alla loro versione innocua e depotenziata, dunque a Norman Osborn, Max Dillon, Curtis Connors, Flint Marko e Octo Octavius. Dato che rispedirli al proprio mondo vorrebbe dire abbandonarli alla loro sorte (la morte), le tre varianti di Spider-Man sperimentano degli antidoti ad hoc, dei veri e propri vaccini in grado di curare i nemici storici. A causa di alcuni esperimenti più o meno casuali, ma comunque non andati a buon fine, ognuno di loro ha assunto nel rispettivo mondo di provenienza una forma superpotenziata, trasformandosi in una minaccia per la salute globale del “nuovo” mondo in cui si ritrovano catapultati. Se, in prima battuta, alcuni di loro accettano di buon grado la terapia per retrocedere al loro stato originario, altri non ne vogliono sapere: preferiscono la versione “malata” e potenziata di sé stessi, nonostante essa possa teoricamente rappresentare un danno alla comunità.
Il dissidio interiore è cruciale, per l’eroe come per i cattivi: imporre loro una cura con il fine di salvarli e porre fine alla minaccia oppure lasciare che il proprio destino si compia nei rispettivi mondi/film di riferimento? Dall’altro, la privazione dei poteri rappresenta una sospensione della libertà personale, cui non tutti sono disposti. Il punto è proprio quanto sia moralmente corretto imporre tale decisione dall’alto della propria moralità supereroica, sopprimendo i superpoteri altrui per un bene comune in un’ottica deterministica, e quanto invece sia necessario garantire il libero arbitrio anche se l’affermazione di questo implicasse la fine del mondo. Ma i nostri villain sembrano smentire la massima per cui da grandi poteri deriverebbero grandi responsabilità, dimostrando di non essere in grado di gestire i propri poteri in autonomia e lucidità, e dunque di non potersi prendere alcuna responsabilità sociale.
Spider-Man, illuminato da zia May sul punto di morte e incoraggiato dalle sue stesse varianti, decide dunque sostituirsi all’arbitrio dei propri nemici, prendendosi le grandi responsabilità che derivano dai suoi poteri: prima di rispedirli ognuno al suo mondo di origine decide di curarli, vaccinandoli contro la loro volontà, retrocedendoli uno per uno alla norma, rendendoli immuni e, di conseguenza, salvandogli la vita. Come già osservato da Daniele Dottorini, riprendendo la timeline della saga dello Spider-Verse ideata da Don Slott nel 2014, il film d’animazione Spider-Man: Into the Spider-Verse (2019, Bob Persichetti, Peter Ramsey, Rodney Rothman) aveva già creato uno «spazio di confine» in cui vari universi dell’Uomo Ragno entravano «in collisione», in cui «le narrazioni si incrociano, i personaggi attraversano i confini e creano paradossi narrativi e temporali».
In aggiunta, i concetti di «multiverso» e «variante» erano già stati introdotti e discussi nel MCU da serie come WandaVision (2021, Jac Schaeffer) e Loki (2021, Michael Waldron), oltre che già anticipati in un certo senso dagli ultimi due Avengers. Tuttavia, in nessuno di questi casi il legame tra reale e virtuale era stato così esplicito come in No Way Home. Per certi versi, questo di Jon Watts sembra quasi un film gemello di No Time to Die (2021, Cary Fukunaga), con cui condivide l’urgenza di una riflessione immediata e subliminale sul presente. Se nel finale dell’ultimo capitolo di 007 il personaggio di James Bond, che è una variante di per sé, muore isolato in un sacrificio catartico a causa di un virus che si trasmette tramite contatto fisico, Spider-Man decide qui di sacrificare la propria identità reale (svelata nella prima scena), e di conseguenza la sua vita privata, per chiudere le linee temporali incidentalmente aperte, riportare le varianti al loro posto e salvare il mondo da un’irrimediabile rottura del multiverso.
Il processo di coming-of-age può dunque dirsi concluso: Peter Parker è diventato grande, ha la possibilità di redimersi, di rimediare ai propri errori, ma deve comunque ricominciare da capo, senza possibilità di tornare a casa (come ci suggerisce il titolo, No Way Home). Ed ecco che Spider-Man diventa una variante di sé stesso in un mondo che ha perso la memoria. Per ricostruire la sua identità, per recuperare la sua matrice originale, deve ripartire delle relazioni umane che aveva costruito nella sua vita precedente. Il viaggio dell’eroe ricomincia, così, dalle piccole cose: in un finale alla Eternal Sunshine, mentre fuori nevica, in una caffetteria di Manhattan, Peter re-incontra per la prima volta MJ, che gli serve un caffè.
Spider-Man: No Way Home. Regia: Jon Watts; sceneggiatura: Chris McKenna, Erik Sommers; interpreti: Tom Holland, Zendaya, Jacob Batalon; produzione: Marvel Studios, Columbia Pictures, Pascal Pictures; distribuzione: Warner Bros. Entertainment Italia; origine: Stati Uniti; anno: 2021; durata: 148′.