Qualcosa accade sin dalle prime immagini, dall’apparizione dell’icona della Columbia Pictures sullo schermo: una sorta di mutazione, esplosione improvvisa di forme e colori. La celebre immagine femminile si anima in una girandola multicolore, diventa una cow-girl che spara all’impazzata. Interferenze continue scandiscono il rituale dei titoli di testa. Poi l’immagine cambia, inizia la narrazione: ancora una volta però ci troviamo di fronte a qualcosa di inatteso. Spider-Man: Un nuovo universo, di Bob Persichetti, Peter Ramsey, Rodney Rothman sin dall’inizio marca un confine o meglio, lavora esattamente sul confine tra le dimensioni dell’immagine; tra la bidimensionalità estrema del comic e la tridimensionalità intrinseca del cinema (che non ha bisogno del 3D per palesarsi).

Qualcosa accade: nella prima sequenza del film Peter Parker si presenta direttamente allo spettatore, racconta i suoi dieci anni come supereroe, mentre in un montaggio vorticoso appaiono riproduzioni di copertine di comics dell’Uomo Ragno (ispirate ai disegni di Steve Ditko e John Romita, storici disegnatori di Spiderman), immagini del passato e immagini che anticipano ciò che accadrà nel film. Il primo confine è dunque quello del personaggio che è al tempo stesso dentro e fuori la rappresentazione, consapevole – come lo è il mercenario logorroico Deadpool, che è in questo senso la figura più pirandelliana dell’intero universo Marvel – di essere appunto un personaggio, di essere maschera e icona dell’immaginario collettivo. Nel montaggio frenetico iniziale compaiono immagini che citano esplicitamente i film di Sam Raimi e di Marc Webb, alcune delle varie saghe che la Sony, detentrice dei diritti del personaggio, ha sviluppato nel corso degli anni. Citazioni volutamente inesatte, con particolari rovesciati, quasi a mostrare che il mondo, l’universo di riferimento è un altro, simile ma non uguale. Ecco allora, ad esempio, riapparire la famosa scena del bacio tra MJ e Spider-Man nel film di Raimi (ma questa volta è Mary Jane a pendere a testa in giù).

Si tratta del secondo confine, quello tra universi narrativi. Spiderman: Into the Spider-Verse è il titolo originale del film, che sviluppa l’idea già apparsa nella timeline della saga dello Spider-Verse, ideata da Don Slott nel 2014 e basata sull’idea della coesistenza di molteplici universi paralleli, in ognuno dei quali esiste uno Spiderman di volta in volta diverso. Nell’universo principale del film, Spider-Man muore e un adolescente per metà ispanico e per metà afroamericano, Miles Morales – personaggio inventato da Brian Michael Bendis, uno dei guru del fumetto contemporaneo – ne prenderà il posto. La moltiplicazione degli universi, la creazione di nuove linee spazio-temporali appartiene da sempre alla sfera delle possibilità narrative dei comics, della letteratura e del cinema fantastici. È tra l’altro forse una delle tendenze più riconoscibili del nuovo immaginario fantastico hollywoodiano (basti pensare alla pratica del reboot narrativo messa in pratica da J.J. Abrams); la forma che moltiplica i piani narrativi e gioca con le possibilità combinatorie potenzialmente infinite delle narrazioni. Ciò che lo Spider-Verse (fumetto e film) costruisce è uno spazio di confine in cui i vari universi entrano in collisione, in cui cioè le narrazioni si incrociano, i personaggi attraversano i confini e creano paradossi narrativi e temporali.

Ma se dal punto di vista narrativo Spider-Man: Un nuovo universo si inserisce in questa tendenza, è dal punto di vista visuale che il gioco del confine, che il muoversi tra forme e spazi diversi acquista un senso differente. Il lavoro del film è infatti quello di muoversi costantemente tra dimensioni diverse dell’immagine, quasi tentando di forzarne ogni volta i limiti. Phil Lord, autore del soggetto lo dichiara esplicitamente: “il senso del film è quello di farti sentire come se camminassi all’interno di un fumetto”. Camminare all’interno di un fumetto: ovvero lavorare sul confine tra il movimento e l’immobilità. Ecco che le immagini del film ritornano alla mente. I combattimenti, i movimenti rapidi, le corse, le fughe. Il montaggio ipercinetico, il cambiamento repentino e continuo dei punti macchina si accompagna a qualcosa di diverso. L’immagine che si vuole oltre se stessa, che desidera ardentemente la tridimensionalità entra improvvisamente in un’altra dimensione, quella appunto del fumetto.

Come già aveva provato a fare Ang Lee con il suo sfortunato Hulk (2003), come faceva allegramente il Batman (Dozier, 1966-1968) camp degli anni sessanta, il cinema gioca con le dimensioni, muove il fumetto o fa muovere i corpi all’interno del fumetto. Il movimento cinematografico sfonda cioè ciò che comunque il comic ha messo in discussione da decenni, vale a dire la tirannia dei bordi della vignetta o della tavola. Le pratiche visuali del comic (le parole onomatopeiche che compaiono sullo schermo, le didascalie, letteralmente i bordi delle vignette) entrano a far parte del gioco cinematico del film, costruiscono cioè quel confine aperto su cui il cinema disegna nuove traiettorie. In un certo senso, Spider-Man: Un nuovo universo porta alle estreme conseguenze quel desiderio di fuoriuscita da sé che l’animazione da sempre cerca di realizzare. Ma ciò che rende appunto l’animazione affascinante è, come aveva perfettamente capito Ejzenštejn parlando di Disney, lo stare sul confine muovendosi senza sosta, mutando in continuazione, perdendo l’ossessione dell’identità, facendo della metamorfosi, dell’ibridazione il fulcro del nuovo piacere degli occhi.Il film si muove costantemente tra questi universi, tra il cinema, l’animazione e il fumetto, in un gioco vorticoso e affascinante. Nel lungo confronto finale, in cui tutti gli Spider-Man si ritrovano insieme a combattere il villain di turno (un Kingpin quasi cubista, le cui fattezze ricordano la versione disegnata da Frank Miller), la lotta avviene nello spazio in cui la frattura tra gli universi si è aperta. Uno spazio privo di confini precisi, dove gli oggetti diventano linee dinamiche e forme cangianti come in un film di Oskar Fischinger, e in cui i corpi mobili degli eroi navigano senza sosta. Una zona che è il confine aperto delle forme del film, in cui street-art, comic, pittura, animazione digitale e tradizionale si fondono insieme, mutano e fluttuano l’una sull’altra. Una zona in continua trasformazione e movimento, una versione pop e lisergica della “zona” tarkovskijana o del puro movimento visuale nel finale di 2001: Odissea nello spazio (1968) di Kubrick. Appunto un luogo di pura esperienza visiva.

Non si tratta di affastellare citazioni apparentemente impertinenti, ma di mettere l’accento su alcuni percorsi che caratterizzano l’animazione contemporanea (o forse esistenti lungo la storia dell’animazione tutta). Percorsi in cui convergono istanze visionarie e abili strategie di marketing, in cui si incrociano e si sperimentano nuove strade dell’immaginario con esperienze artistiche ed estetiche del Novecento. Lo Spider-Man della Sony Animation dunque, fresco vincitore del Golden Globe come miglior film di animazione si mostra come un tassello importante di una trasformazione dell’immagine contemporanea, in cui passato e presente convivono e in cui è l’idea stessa di confine, di separazione di forme e universi ad essere radicalmente scardinata.

Tags     Marvel, Spiderman, Stan Lee
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