La macchina mitopoietica della serie cinematografica di James Bond genera il suo viaggio a Colono, un commiato dell’eroe maturo che comincia da un cimitero in Magna Grecia, prosegue con un ritorno in Jamaica (la location del primo film del 1962), spinge l’eroe al confronto con vecchi amici e nemici e finisce – direbbe Sofocle – «là da dove si è giunti». Non c’è modo più spettacolare per congedare l’attore protagonista, in una serie che per convenzione viene periodizzata sulla base degli attori che hanno incarnato Bond.
La Craig-era (2006-2021) è caratterizzata anzitutto dal fatto che il personaggio ha memoria di sé, si porta dietro il proprio vissuto, nella mente e nel corpo. Questo è un fatto nuovo, perché i Bond delle epoche precedenti andavano sì alla ricerca di tracce, come si conviene all’eroe di una spy story, genere eminentemente documentale, ma non lasciavano tracce proprie, né la durezza del reale ne imprimeva di permanenti sui loro corpi. Potremmo dire che la serialità di 007 assumeva, prima di Craig, una struttura verticale, mentre da Casino Royale (2006) in poi costruisce la linea dello sviluppo orizzontale; in poche parole, come notava Enrico Terrone già nel 2007 e come i film successivi hanno ampiamente confermato, «Casino Royale fa propria la lezione delle serie TV contemporanee» (Terrone 2007, p. 33).
La ridefinizione del personaggio passa dunque attraverso l’isteresi, il peso degli eventi passati sugli eventi futuri; spiegandolo con una metafora, come fa Maurizio Ferraris in Documanità (2021), No Time To Die è il film dell’isteresi perché è la goccia che fa traboccare il vaso, mentre la regola della serialità pre-Craig prescriveva di svuotare il vaso il più possibile, o di non riempirlo affatto. Con un personaggio femminile di nome Madeleine Swann (apparsa per la prima volta nel film precedente, Spectre), di professione psicologa, appare evidente che i film di questa fase sono «legati da un’ostentata ed estesa Rimembranza delle Cose Passate» (Murray 2017, pp. 247-273), come scrive Jonathan Murray. Tuttavia il corpo di James Bond nella Craig-era non si esaurisce nella funzione di esibire i segni della propria storia; oltre ad andare incontro all’istanza documentale, il corpo spesso offeso e ferito del personaggio si colloca «in una posizione centrale e vulnerabile» che problematizza, secondo Patrick Anderson, «le rappresentazioni classiche della mascolinità» (Anderson 2016, pp. 1-27) – che poi è ciò che letteralmente deflagra nel finale di No Time To Die.
A questa riconfigurata strategia seriale offre un contributo rilevante Cary Fukunaga, regista che in qualche modo incarna più di altri la pratica della regia televisiva full season, avendo firmato tutti gli episodi della prima stagione della serie antologica True Detective (2014) e della miniserie Maniac (2018). Scelto dalla produzione dopo divergenze con il designato Danny Boyle, Fukunaga deve anzitutto dare una propria soluzione al problema strutturale dei film di James Bond, sempre scissi tra scene di situazione e scene di azione. La visione del regista non è del tutto unitaria e unificante, ma sviluppa delle soluzioni caso per caso, con un denominatore comune costituito da un gusto per la composizione geometrica: per esempio la messa in scena del prologo nella casa sulla neve di Madeleine bambina è brillante nella costruzione della situazione, che ci presenta con pochi tratti una bambina abbandonata a sé stessa da una madre in caduta libera, con un marito e padre assente; dal nulla, con la secca apparizione di una maschera bianca alla finestra, comincia una seconda parte (l’azione) tutta giocata sulle posizioni e sui movimenti dei personaggi nella casa, in stile horror, sino alla conclusione spettacolare in esterni, sul lago ghiacciato.
In altri casi, Fukunaga adotta uno stile estremamente coreografato per l’azione e un approccio molto sobrio per le scene dialogate importanti, dando il giusto peso a una sceneggiatura più curata del solito nei dettagli. Indicando una scena fra tutte, il confronto tra Bond e il nemico storico Blofeld è anticipato da un appuntamento mancato tra due corpi che si avvicinano e alla fine non si incontrano (Bond e Madeleine in corridoio), e poi risolto da un movimento analogo, all’interno della cella per gli interrogatori, sul modello di Il silenzio degli innocenti (1991).
Proprio questa scena ci consente di apprezzare il contributo di un altro grande nome coinvolto per la prima volta nella serie, vale a dire Hans Zimmer, decimo compositore chiamato a creare una partitura originale per un film di 007. Mentre Bond fa il suo cammino prima verso Madeleine e poi verso Blofeld, all’angosciosa regolarità di un suono percussivo elettronicamente filtrato (come un’eco mentale dei passi sul pavimento) fa da sottofondo la risonanza dolorosa di una nota tenuta, persistente, che al realismo acustico dell’onomatopea oppone lo spostamento traduttivo della sinestesia. Quando Zimmer si allontana da questa severa e profonda semplicità diventa prevedibilmente un martello al servizio della sintassi dell’azione e il suo discorso si fa meno interessante; tuttavia non sono così pochi i passaggi in cui torna a ragionare qualitativamente, per esempio la sua interpretazione musicale del “giardino dei veleni” è un bellissimo disegno ricorsivo di matrice horror.
Parlando di musica non si può non citare la canzone che accompagna i titoli di testa, elemento fondamentale del concept della serie; questa volta tocca a Billie Eilish, giovanissima autrice e interprete che Pitchfork ha definito «the most visible teenage girl on the planet». La serie di 007 vanta un repertorio di brani rinomati; in particolare, da Skyfall (2012) in poi, con l’impatto eclatante dell’omonimo brano di Adele sul mercato discografico, gli artisti pop fanno a gara per diventare parte di questa tradizione assai remunerativa (per questo film si parlava di un brano già pronto di Ed Sheeran), e viceversa il brand di serie riceve dalle pop star un potente effetto moltiplicatore. Tuttavia, limitare il contributo di Billie Eilish alle strategie di marketing sarebbe ingeneroso e criticamente ottuso; registrato in uno studio domestico, scritto dall’interprete insieme a suo fratello Finneas, rilasciato su Spotify un anno e mezzo fa, No Time To Die è un pezzo intimista nella scrittura e nell’interpretazione, con Billie Eilish impegnata in un vibrato anti-virtuosistico e molto espressivo, per poi passare alla voce in maschera in una seconda parte appesantita dagli interventi di Hans Zimmer.
Questa voce femminile giovane e alla ricerca di sé assorbe e restituisce il senso di un film che apre alle possibilità mai consentite dalle regole della serie cinematografica. Così James Bond è giunto finalmente a Colono, e c’è un dio che lo richiama: «Edipo, Edipo, che cosa aspettiamo ad andare? È un pezzo, che indugi».
Riferimenti bibliografici
P. Anderson, Neocon Bond: The Cultural Politics of Skyfall, in “Quarterly Review of Film and Video”, n. 34.1, 2016.
J. Murray, Containing the Spectre of the Past: The Evolution of the James Bond Franchise during the Daniel Craig Era, in “Visual Culture in Britain”, n. 18.2, 2017.
E. Terrone, Casino Royale, in “Segnocinema”, n. 144, 2007.
No Time to Die. Regia: Cary Fukunaga; sceneggiatura: Cary Fukunaga, Neal Purvis, Robert Wade, Phoebe Waller-Bridge; fotografia: Linus Sandgren; montaggio: Tom Cross, Elliot Graham; scenografia: Véronique Melery; costumi: Suttirat Anne Larlab; musiche: Hans Zimmer; interpreti: Daniel Craig, Rami Malek, Léa Seydoux, Lashana Lynch, Christoph Waltz, Ben Whishaw, Ana de Armas, Naomie Harris, Jeffrey Wright, Ralph Fiennes, Dali Benssalah, David Dencik, Billy Magnussen; produzione: Metro-Goldwyn-Mayer, Columbia Pictures, EON Productions, Danjag LLC; distribuzione: Universal Pictures; origine: Regno Unito, USA; durata: 163’; anno: 2021.