Capriccio all’italiana (1968).

Nel primo manifesto de Il teatro della crudeltà Artaud parla di potere di dissociazione fisica e anarchica del riso e, quando vedrà i danzatori balinesi, scriverà di loro: “le gioie e i dolori non sembrano appartenere loro in proprio, come se fossero dettati da qualche intelligenza superiore” (Artaud 1968, p. 175). Nel manifesto de Il Teatro di Varietà, Marinetti e i futuristi affermano di voler trasformare il Teatro di Varietà in teatro dello stupore, del record e della fisicofollia. Il futurista napoletano Francesco Cangiullo definisce Gustavo De Marco, l’attore fantasista di matrice popolare che fu il “mentore” di Totò, “pupazzetto spezzettato del jazz”. Sono suggestioni che hanno in parte fondato una nuova cifra dello spettacolo novecentesco, e dello stile delle avanguardie attinenti rispettivamente a una qualità “metafisica” del riso, a una “impersonalità” del corpo attorico, a un uso deflagrante di deformazione grottesca e di frammentazione della scena (di tipo attrazionale, insito nella velocità e nella traumaticità dei “numeri” del Varietà o del circo).

Totò sembra, all’interno di questo esito novecentesco di un tragitto della maschera, incarnare ognuna di queste suggestioni. La “meccanica” della sua comicità, il dispositivo del suo suscitare riso, si basa su una decostruzione che investe l’intero sistema linguistico, il coacervo di segni che scorrono lungo le membra e il corpo e vengono emessi (fulmineamente, a raffica) nel suo profluvio verbale, il quale scoppia ogni volta in modo catastrofico come un susseguirsi di detonazioni, petardi, deflagrazioni (tanto è vero che quelle giaculatorie paradossali che disossano il verbo e il senso confluiscono spesso in Totò nelle sonorità pure dei fuochi d’artificio vocali, diretta conseguenza di battute come: «Quattro eclissi, due alluvioni e un pediluvio!» o «L’altro mondo è lontano da ogni centro abitato»).

Insomma il “riso di Totò” si sgancia, artaudianamente, da ogni controllo e normativa, da qualsivoglia, anche satirico, rapporto con il potere, per destituirlo dalle radici, togliergli il fondamento simbolico, scoronarlo, rovesciarlo proprio nel senso “sacrificale” di scarnificazione, di disossamento del corpo, di “dissociazione fisica”, per farne scaturire un “fumo” che si dirige dal basso verso l’alto (verso il “cielo” di un “burattinaio divino” che tira i fili destinali delle marionette umane-troppo-umane, come Pasolini seppe mostrare proprio con Totò in Che cosa sono le nuvole?). Ma la fisicità di Totò (che a ben vedere è pregna di humus popolare, nella capacità di una gesticolazione muta ed eloquente, ma è anche capace di sintetizzarsi in un geroglifico misterico, in una linea “araldica” tutta aristocratica) tende a una disumanizzazione. Per cui Totò ha appunto qualcosa di spettrale, di diafano, di vaticinante, di medianico, come fosse in comunicazione con un “aldilà” che è certo quella “città dei morti” del Rione Sanità, a Napoli, dove è nato (in una strada che ha l’evocativo nome di “Santa Maria Antesaecula”) e dove nell’antichità si estendevano gli ipogei catacombali, ma è anche una dimensione auratica che la sua maschera sapeva emettere ed espandere sul palcoscenico, e soprattutto sullo schermo, in quella “zona” già spettrale di per sé, in quel territorio di parvenze, ombre e fantasmi che è il cinema (e ciò si ripercuote dai primi film come L’allegro fantasma, 1941, di Palermi o Totò all’inferno, 1955, di Mastrocinque fino al terreno filmico “sospeso”, allegorico, incantato del binomio Pasolini/Totò, basti pensare a Uccellacci e Uccellini, 1966 e La Terra vista dalla Luna, 1967).

Totò si trasforma così in un ossimoro vivente: qualcosa che è fisico fino all’eccesso (si può dire ultrafisico e metafisico certo, ma estremizzando il lavoro di deformazione grottesca del corpo di cui Totò investe il proprio corpo-scheletro), disorganizzando e “deorganicizzando” il proprio fisico (un “corpo senza organi” insubordinato, secondo la linea Artaud-Deleuze, Totò si autodefiniva “un’ameba”), e qualcosa di spettrale, di larvale, ma anche di angelico, come disincarnato e totemico (Fellini ricorda la sua apparizione traumatica, visione ed epifania sulla ribalta di un teatrino di varietà, con un moccolo di candela accesa in mano, quando esclamava, come “risorto” da un sepolcro: «Buona Pasqua!»).

Si può parlare allora di una “fisicofollia” nel senso auspicato dai futuristi, per cui tutti gli scatti “ipermarionettisti”, snodati, smembrati e riaccostati in modo folle e “cubista” (Totò può apparire come un disegno picassiano) presiedono a un “montaggio delle attrazioni” secondo il quale ogni sortita “totoesca”, da quella in groppa a un cavallo impazzando sui tetti in Animali pazzi (1939) di Bragaglia a quella in veste di “pazzariello” ne L’oro di Napoli (1954) di De Sica, passando per l’ispirazione zavattiniana del fanciullo pazzo e felice di Totò il buono che sta alla base di Miracolo a Milano (De Sica, 1951) al grottesco serial killer di Totò diabolicus (Steno, 1962), irrompe sulla scena come una folata di pazzia, uno stupefacente avvento che scompiglia e rovescia il mondo, ne vanifica le illusioni eppure ne rivela la croyance, la pulsione vitale (proprio introiettandone l’altro versante, quello fantasmatico, funebre, secondo un carnevalesco irrompere dei revenants, dei morti-maschere). In ciò risiede la modernità di Totò e insieme la sua ancestralità.

Estremamente e inconsapevolmente “avanguardistico”, Totò è però anche il ritorno mesmerico sulla scena del mondo di quelle antiche masche stregonesche, oppure di quegli oracula animati da fili invisibili che apparivano nelle iniziazioni misteriche, o ancora degli eìdolon di cui parla Jean-Pierre Vernant, come antenati totemici della maschera/“corpo del morto”, come quei simulacri che già Platone (“presentendo” il cinema) vedeva in immagini animate, automi artificiali. In questo senso è curioso pensare come, nel tragitto destinale dell’attore Totò egli, tra anni venti e trenta, da un lato, nella compagnia di Eduardo D’Acierno, inizia ad “animare” in senso quasi “biomeccanico” le macchiette ispirate a De Marco e dall’altro, a Roma nel 1922, calca le scene traballanti di periferia con la compagnia comica di Umberto Capece, impersonando, quasi senza paga, l’antico Mamo, il Pulcinella larvale della commedia greco-romana. Ed è anche singolare come il suo stesso corpo risponda a un tale destino animico, a questa investitura psichica: nel 1915 per farsi riformare simula così bene un attacco epilettico da essere ricoverato all’ospedale militare, e prima ancora, undicenne in collegio, la sua maschera dal naso-mento storto si imprime grazie a uno scherzoso tiro di boxe di un precettore con i suoi allievi, e viene da pensare alle gag di Charlot boxeur.

La sua voce roca e granosa, ma anche impastata di echi e di stridolii, di cantilenante e accentante storpiatura, se per un verso ha la qualità spiritica di un antico “monaciello”, di un vaticinio spettrale (ricordiamoci come invocava sullo schermo «Il fantasma! Il fantasma!»), dall’altro è capace di onomatopee e melopee jazzistiche («Checché!», «Opperbacco!», «Duca? Dica!»). Pertanto Totò è grande improvvisatore, virtuoso del nesso corpovoce, della performance visiva-musicale (non è un caso se le sue sonorità sono state “trascritte” per un pezzo “rap” composto sulla sua voce). Le sue circonvoluzioni verbali non sono mai disgiunte dalle vorticanti posture corporali (in tal senso l’eccedere del fisico in un’astrazione che però si concretizza in modo travolgente, nel “toccamento”, nella ripercussione, nell’assalto fisico, viene ereditato da un attore folle e geniale come Roberto Benigni) e questa “potenza” dell’espressione conferisce al suo fisico capacità quasi soprannaturali. Quasi cieco, entrava sul set, alzandosi dalla sua poltroncina dove sedeva composto e silenzioso, cominciava a sgambettare, a muoversi freneticamente e, toltosi gli occhiali scuri, vedeva perfettamente intorno a sé. Vincenzo Cerami racconta un episodio di “corrente improvvisativa” tra Totò e il pubblico teatrale: quando il comico concedeva i bis in varie entrate secondo una improvvisazione “vocalica”. «Adesso li faccio ridere con la A… adesso li faccio ridere con la I… adesso li faccio ridere con la U…» diceva e si esibiva in spalancamenti di bocca, arricciature di naso, deviazioni e arrampicamenti, allungamenti del corpo snodabile, quasi incarnando l’“alchimia del verbo” di Rimbaud.

A questo proposito un attore del calibro di Leo De Berardinis, devoto e amante alla stessa stregua di Totò e di Charlie Parker (cui ha reso omaggio diversamente in uno spettacolo, Totò principe di Danimarca, e in un film, A Charlie Parker del 1971) riflette in tal modo: “La libertà non è un arbitrio, la si conquista; improvvisazione in teatro significa creatività, libertà dentro uno schema, rivivere ogni sera la stessa cosa con nuovo stupore e renderla credibile. Per improvvisare occorre un alto livello di preparazione e conoscenza reciproca”. È significativo come, in occasione del cinquantenario della scomparsa, siano state sintetizzate molte di queste caratteristiche, e riassunte in una qualità “musicale” di aura “fisicofolle” e spettrale, da uno spettacolo, che esplicita il binomio comico-tragico di questo artista: Totò che tragedia! realizzato da Teatri Uniti (artefici per il cinquantenario anche di “riapparizioni” moltiplicate di set totoeschi per le strade di Milano, Roma e Napoli) e dai Virtuosi di San Martino. Ed è altrettanto significativo che molte di tali prerogative totoesche siano state colte come in diretta da un critico degli anni trenta, Mario Ramperti, che scrive a proposito di Totò, e vale la pena riportarne un ampio stralcio:

Attore fantomatico, il quale riesce comico avendo uno stampo tragico. E non più l’uomo, ma lo spettro che ride. Qualche cosa che viene dal mondo delle larve, diretto al mondo delle burle. Egli è il lemure saltante e danzante d’un racconto d’Hoffmann o d’un sogno d’ebbro. È le gai revenant della ballata victorhughiana. Quel pallore, quello stupore, quello scavato viso, quel corpo fantoccesco, privo di carne, e le cui ossa si immaginano attaccate a dei fili, quel procedere a scatti e strappi, quegli sporgenti occhi e quel collo, di cui gli uni sembrano d’un batrace, l’altro a un barbagianni, e questo e quelli a un quadro di streghe, non si direbbero certo ameni per definizione. Eppure scatenano ilarità, per un processo che in parte si spiega, in parte rimane misterioso (Ramperti 1934, p. 3).

È come se Totò fosse un’“anima nascosta” del carattere italiano, incarnasse e disincarnasse insieme quei binomi scetticismo-illusionismo, morte-vita, nulla-mondo, disinganno-credenza, di cui ci parla Leopardi nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani. Incontrando nella sua casa romana un regista come Mario Martone, all’indomani dell’uscita del suo Il giovane favoloso (2014), questi mi mostra a un tratto una piccola statuetta in gesso che rappresenta Leopardi, ingobbito e stretto in una sua sdrucita marsina. Conveniamo insieme che sembra Totò. Sopravvivenza fisica di uno spettro eterno.

Riferimenti bibliografici
A. Anile, Il cinema di Totò (1930-1945), Le Mani, Recco (GE) 1997.
M. Ramperti, Totò l’ameno spettro, in “Cinema Illustrazione”, n. 28 (1934).
M. Scuriatti, E io lo nacqui. Totò, o l’arte della commedia bassa, Bietti, Milano 2015.

Tags     maschera, Totò
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