Le strade del cinema mainstream italiano possono essere molto noiose e ripetitive e spesso finiscono per ridursi a sentieri senza uscita di una commedia stanca e con poche idee. Quando nel 2015 uscì Lo chiamavano Jeeg Robot fu una specie di rivelazione, che come un fulmine andò ad illuminare una zona d’ombra del cinema nostrano, aprendo le porte a quello che potremmo definire l’action movie all’italiana 2.0. L’estetica del cinema d’azione si mescola con altri elementi della cultura pop, i fumetti, i supereroi, ma anche una certa comicità romana, riuscendo in uno strano mélange capace di alimentare un immaginario collettivo, che rimbalza poi in rete (come con i meme di Luca Marinelli alias Zingaro). Sgombriamo, allora, subito il campo dal dubbio che aleggia intorno al secondo lungometraggio di Gabriele Mainetti: Freaks Out non porta elementi di novità rispetto a quanto già fatto con il film precedente, ma alza l’asticella dell’ambizione, aumenta il livello di complessità della spettacolarità e vince questa scommessa.

Il prologo, che sembra avere un sapore vagamente disneyano, è una sorta di dichiarazione di intenti del regista: Israel (Giorgio Tirabassi), guardando in macchina, ci accoglie nel suo circo, lì dove tutto è possibile grazie alla forza dell’immaginazione. Intorno a lui, controcampo, un gruppo di bambini lo ascolta rapito. È chiara la sovrapposizione: quei bambini siamo noi o meglio questo è l’invito che esplicitamente ci rivolge il regista, quello di lasciarsi coinvolgere dalla magia del cinema e di non opporre resistenza alla meraviglia. Nella tenda comincia lo spettacolo e così conosciamo i quattro protagonisti e i loro super poteri:  Fulvio (Claudio Santamaria), uomo-lupo, ha una forza sovraumana, Mario (Giancarlo Martini) come una calamita anima gli oggetti metallici, Cencio (Pietro Castellitto) è un domatore di insetti e infine c’è Matilde (Aurora Giovinazzo) che dentro di sé ha una luce, un’energia speciale. Quando lo spettacolo è appena terminato una bomba si abbatte sulla tenda: il circo viene spazzato via, fuori imperversa la guerra e i cinque sono costretti a scappare. Una scritta su un muro si intravede, mentre partono i titoli di testa: “Solo Iddio può piegare la volontà fascista; gli uomini e le cose mai”.

Il prosieguo del film è una sorta di sconfessione di questo motto fascista, a colpi di immagini pop, super poteri, melodie “del futuro”, ironia romana e sensazionali combattimenti da videogame, e in fondo forse questa, che ci piaccia o no, è la sua più profonda intonazione politica. Non solo la volontà fascista può essere piegata, ma a farlo saranno quattro emarginati, il cui unico posto al mondo sembra essere quello della sospensione della realtà che è il circo. Nel tentativo di fuga, verso l’America, Israel scompare e i quattro si disgregano, attraversati dal dubbio che l’amico li abbia abbandonati. Fulvio, Cencio e Mario finiranno nel circo nazista, dove Franz, un freak come loro, che vede il futuro, ha in mente di sovvertire la storia creando un esercito di super eroi fra che possano difendere il Reich. Matilde, invece, è decisa a ritrovare Israel, si unirà alla resistenza (un piccolo esercito di uomini e donne con vari accenti del Sud Italia) e comincerà un percorso attraverso se stessa, che la porterà ad accettare il suo potere, la sua diversità, come un dono.

Tutti gli elementi che si intrecceranno nel corso del film sono quelli convocati sin dal prologo: l’amore per il cinema, l’azione, il racconto di personaggi ai margini, la Storia. L’ambientazione del racconto durante la Seconda guerra mondiale è forse la scelta che convince meno: Mainetti si inserisce in quella tendenza molto contemporanea alla riappropriazione ludica del racconto storico, in cui c’è la rinuncia esplicita a qualsiasi ispirazione o ambizione di elaborazione del senso stesso di quel racconto. Il passato storico diventa un insieme di elementi, innanzitutto iconici, una sorta di fibra neutra ma con una sua riconoscibile specificità, su cui far lavorare un immaginario contemporaneo. È quello che accade, ad esempio in una serie com The Hunters, ma anche nella risemantizzazione di Bella Ciao ne La Casa di Carta. La storia del conflitto mondiale, detto altrimenti, offre una cornice che può garantire e in parte giustificare tutti gli altri elementi che il regista chiama in causa: la spettacolarità dell’azione, la lotta tra il bene il male, ma anche il cinema stesso che con quel racconto del secolo breve ha intrattenuto un rapporto essenziale e vitale (tanti sono gli accenni e le rivisitazioni cinematografiche, da Roma città aperta a Il grande dittatore).

Manca allora, rispetto alla prima prova di Mainetti, quella sottile riflessione sui personaggi, che non si prendeva mai sul serio, pur essendo capace di tratteggiare un’umanità sfuggente eppure profondissima; e manca anche forse una traccia comica o leggera più esplicita, affidata in questo caso quasi unicamente alla performance di Pietro Castellitto, che si conferma sempre più un volto interessante del nuovo cinema italiano. Mainetti questa volta sceglie la strada dello spettacolare sopra ogni cosa, della coralità, della sovrabbondanza delle immagini, come nella sequenza della previsione del futuro di Franz che si concretizza in un mashup rapidissimo di immagini emesse da quell’oggetto misterioso che è lo smartphone; e sceglie la strada dell’eroismo al femminile, capace di trovare un posto nel mondo anche a chi sente di non appartenervi (come cantano i Radiohead di Creep ripresa nella bellissima versione solo piano suonata proprio da Franz), capace cioè di salvare con grazia e forza quell’esercito di freak che noi tutti siamo.

Freaks Out. Regia:Gabriele Mainetti; sceneggiatura: Nicola Guaglianone, Gabriele Mainetti, fotografia: Michele D’Attanasio; montaggio: Francesco Di Stefano; scenografia: Massimiliano Sturiale; costumi: Mary Montalto; musica: Michele Braga, Gabriele Mainetti; suono: Mirko Perri; effetti visivi: Stefano Leoni origine: Italia, Belgio; durata: 141’; anno: 2021.

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