I dati sono chiari. La quarta stagione de La casa di carta è stata la stagione seriale più seguita di sempre a livello globale: milioni di utenti in tutto il mondo hanno visto i nuovi episodi, segnando un dato record in molti paesi come Stati Uniti, Francia, Italia. Eppure se c’è una cosa che inequivocabilmente questa quarta stagione ha dimostrato è che La casa di carta è sostanzialmente una serie esaurita: almeno 5 degli 8 episodi sono di fatto un lungo (e noioso) atto introduttivo ai colpi di scena (e di ingegno del professore) che si susseguono negli ultimi tre. Il ritmo e l’intensità degli ultimi episodi ripagano almeno parzialmente lo spettatore della pazienza avuta fino a quel momento, ma è chiaro che il racconto non riesce ad aggiungere alcunché alla reiterazione di uno schema sempre uguale a se stesso. Ma del resto, non è così che funzionano le serie? Non proprio.

L’efficacia del dispositivo seriale – dove per efficacia intendo innanzitutto la capacità della serie di creare un mondo, un universo narrativo fatto di regole precise, specifiche forme di vita e abitudini codificate, e quindi di generare una forma di iconicità che alimenta la partecipazione collettiva e il discorso pubblico –  si basa essenzialmente su un principio di reciprocità che si viene a creare tra il mondo del racconto e la sua narrazione, cioè tra l’universo rappresentato dal racconto e le vicende narrate che contribuiscono alla sua definizione. Se vogliamo rintracciare la ragione del successo (e dell’interesse) delle serie cult che hanno segnato l’immaginario contemporaneo dobbiamo guardare al modo in cui il mondo del racconto si arricchisce e si alimenta a partire dalle vicende narrate.

Il caso che meglio esemplifica questo principio è Lost, che, a ragione veduta, può essere considerata la madre di tutte le serie contemporanee: la narrazione, anche quando fa acqua da tutte le parti, è funzionale alla configurazione di un mondo e ciò che fidelizza lo spettatore, ovvero il motivo per cui lo spettatore è disposto a credere anche a ciò a cui non si può credere, è proprio il tentativo di comprendere, di ricostruire quel mondo che la serie sta narrativizzando. Mittell utilizza l’espressione “estetica funzionale” per descrivere tale forma di coinvolgimento cognitivo dello spettatore. La casa di carta non sollecita il coinvolgimento cognitivo dello spettatore, e forse non l’ha mai fatto, eppure rientra a pieno nelle serie cult del nostro tempo. Perché?

Credo che analizzare La casa di carta a partire del momento eccezionale che stiamo vivendo possa essere un modo utile per rispondere a questa domanda. Forse è anche l’unico modo, alla luce dell’incontrovertibile evidenza che al tempo della pandemia non si riesce a pensare a nient’altro che alla pandemia stessa. O magari, come molti hanno sostenuto, anche qui su Fata Morgana Web, l’eccezionalità del momento che stiamo vivendo lascia emergere quello che in realtà già da tempo siamo e questa considerazione può estendersi anche ai meccanismi di funzionamento delle forme della rappresentazione seriale già da tempo consolidate. Per ritornare, allora, alla domanda sul successo della nostra serie, propongo di partire dall’analisi del suo formato nell’ambito delle condizioni mediali contemporanee, per arrivare poi al suo (non)mondo.

La quarta stagione de La casa di carta è stato il primo vero evento seriale del mondo post-coronavirus ed è evidente che lo stato di reclusione, a cui è sottoposta la gran parte della popolazione del mondo occidentale iperconnesso, ha creato una maggiore disponibilità di tempo. La questione del tempo è decisiva per comprendere il formato seriale: vedere le serie richiede molto tempo, tempo che normalmente sottraiamo al flusso serrato della nostra vita. In quel circolo senza soluzione di continuità tra l’online e l’offline, il lavoro e lo svago, l’introspezione e l’esposizione, le serie riescono a mettere in standby questo vortice sempre più serrato nel quale ci troviamo, ricollocandoci in un’altra dimensione spazio-temporale (il mondo del racconto) che riesce ad esercitare una grande capacità di presa (e di attenzione) sullo spettatore. È a questa capacità di sospensione dell’onlife, per dirla con il neologismo di Floridi, che va ricondotta l’addiction seriale di cui tanto si parla. Ma il punto è che, molto spesso, le serie operano questa azione di sospensione dell’onlife utilizzando un meccanismo che potremmo definire omeopatico: curare la nostra dipendenza dalla velocità dell’iperconnessione, con un ritmo altrettanto veloce e serrato.

Questa non è certamente una regola fissa, e anzi sarebbe interessante fare una ricognizione dei racconti seriali provando a distinguere tra quelle che operano secondo una strategia omeopatica e quelle invece ne adottano una allopatica. Nel caso de La casa di carta, tuttavia, l’omeopatia è la principale ragione del suo successo. In un articolo de “Il Post” viene efficacemente ricostruita la storia produttiva della serie spagnola, che coincide con la storia del suo formato: dopo ascolti tutto sommato modesti in Spagna, Netflix decide di acquisirne i diritti, ma nell’importazione la piattaforma di streaming globale riorganizza gli episodi già andati in onda, rendendoli più brevi e distribuendo il racconto in due stagioni.

In altre parole La casa di carta diventa il prodotto perfetto per essere fruito online, grazie ad una rapida intensità che bene si adatta alle nuove forme di spettatorialità legate allo streaming, come il binge watching. Ed ecco allora che in un weekend da lockdown, la quarta stagione è cotta, mangiata e digerita. Il successo della quarta stagione de La casa di carta rappresenta sicuramente il trionfo del modello distributivo e spettatoriale degli OTT, ma indica anche che esso è strettamente legato, non tanto alla contingenza storica che stiamo vivendo, ma alle strutture dell’organizzazione mediale della nostra vita. Sarà interessante capire, ma questo va oltre il fenomeno de La casa di carta, cosa accadrà allo pratiche dello streaming, che evidentemente stanno acquistando sempre più centralità nell’esperienza della fruizione del prodotti audiovisivi, soprattutto alla luce di una nuova (sarà davvero così?) riorganizzazione del tempo a nostra disposizione.

Ma il ritmo serrato del racconto che procede a colpi di cliffanger non basta a spiegarne il successo. C’è un momento significativo del settimo episodio, che coincide anche con il punto di svolta dell’intera stagione, quando il professore torna in se stesso, riacquista lucidità e mette a segno la prima controffensiva in quella che è diventata una vera e propria guerra: le porte della Banca di Spagna si spalancano e sulle note di Bella Ciao, accennate dall’armonica di Helsinki, esce il feretro di Nairobi, protetta da uomini e donne con il volto coperto dalla maschera di Dalì. La scena, con il suo carico patetico che si scioglie nella malinconia di una canzone pop spagnola (dal global al local), racchiude l’intero mondo della serie.

E qui arriviamo a toccare l’altra specificità de La Casa di carta: la serie non crea un proprio mondo ma si appropria di quello che c’è fuori, lo spalanca, dando una forma narrativa e plastica (la maschera) ad un sentimento liquido, tra il populismo e l’utopia, che aleggia sull’intero globo. Il mondo della serie è il mondo in cui noi viviamo, quello in cui le guerre (e le resistenze) hanno come primo campo di battaglia gli schermi e la loro capacità di orientare l’affettività collettiva. Lo sa bene il professore e, infatti, la sua unica, ultima, arma a disposizione è quella di utilizzare le verità nascoste dall’apparato dello Stato (l’uccisione di Nairobi e la tortura di Rio) come virus (!) che rimbalzano da dispositivo a dispositivo, da schermo a schermo, contribuendo a costruire, per opposizione, una forma di collettività resistente.

Ed è questo, dunque, oltre alla specificità del formato, l’elemento che contraddistingue questo racconto seriale, la sua capacità di appropriarsi del mondo, di un sentimento collettivo noto ma in fondo inelaborato. Tale specificità viene testimoniata anche da quelle occasioni in cui il racconto si riapre al mondo, ad esempio nelle forme ibride di promozione, come quando in occasione del rilascio della terza stagione, fu organizzata una proiezione pubblica dinanzi alla Borsa di Milano, all’ombra di L.O.V.E. di Cattelan.

Allora, nonostante riesca a fondere locale e globale, il populismo europeo e le forme della serialità OTT d’oltreoceano, l’utopia e la manipolazione mediale, il racconto resta intrappolato in quel mondo chiuso, che è già lì fuori. Ma anche noi spettatori globali, in fondo, ci troviamo oggi letteralmente in trappola, nelle nostre case, ed è difficile non pensare che nelle note dell’armonica di Helsinki risuoni un sentimento, facilmente condivisibile nel senso mediale del termine, di resistenza che ci abita e che anima le cosiddette narrazioni utopiche (Pedroni) che il presente sta facendo emergere. Eppure mai come in questo momento capiamo che la vera sfida è quella di far corrispondere a quel sentimento la creazione di un nuovo mondo. La serie non è all’altezza di questo compito. Ma la vera domanda è se sapremo esserlo noi.

Riferimenti bibliografici 
L. Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Cortina, Milano 2017
J. Mittell, Lost in a Great Story. Evaluation in Narrative Television (and Television Studies), in R. Pearson, a cura di, Reading Lost, I.B.Tauris, London-New York 2009.
M. Pedroni, Milan|Wuhan. Appunti per una virologia mediatica, in “Medialità Virale” – Seminario. 

La casa di carta. Ideatore: Álex Pina; interpreti: Úrsula Corberó, Itziar Ituño, Álvaro Morte, Paco Tous, Pedro Alonso; produzione: Vancouver Media, Netflix; origine: Spagna; anno: 2017-in produzione.

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