di CHRISTIAN UVA
Speravo de morì prima di Luca Ribuoli.
Non c’è dubbio che l’addio al calcio di Francesco Totti sia stato un vero e proprio media event, cioè un giorno «di festa della comunicazione di massa» – per quanto drammatico per tutta la comunità di tifosi romanisti (e non solo) – nel quale si è proposto il «racconto di una storia archetipica sull’attualità» (Dayan, Katz 1993, p. 3). Il 28 maggio 2017, allo Stadio Olimpico di Roma e contemporaneamente in diretta su Sky, come è stato osservato da più parti, si è celebrato infatti per un “eroe dei nostri tempi” un fondamentale rito di passaggio che ha coinvolto in una sorta di psicodramma collettivo decine di migliaia di persone: la transizione dall’infanzia all’età adulta.
Non stupisce pertanto che sia proprio questo l’approdo a cui giunge Speravo de morì prima, l’ultimo esempio di un genere, come il biografico, che proprio del racconto della vita (Tagliani 2019) – sebbene qui suggellato quasi per contrappunto da un titolo scanzonatamente funereo – fa per definizione il suo oggetto sfruttando, come sempre più spesso accade negli ultimi anni, l’espansione della dimensione narrativa resa possibile dalla forma seriale.
I sei episodi di Sky ideati da Stefano Bises e Michele Astori, diretti da Luca Ribuoli e basati – come già il documentario di Alex Infascelli del 2020, Mi chiamo Francesco Totti – sull’autobiografia Un capitano, scritta dallo stesso Totti con Paolo Condò, appaiono fin dall’inizio incentrati ossessivamente sulla dimensione dell’inesorabile trascorrere del tempo (il «maledetto tempo», secondo l’espressione usata dal calciatore nel discorso di addio parzialmente riproposto nell’ultimo episodio della serie) e sulla nostalgia di un passato che si vuole ostinatamente non far passare mai, come testimoniano i continui flashback che dal 2016, all’alba dei fatidici quarant’anni, riportano il protagonista indietro nella sua storia e in quella della squadra in cui ha militato fin da giovanissimo.
Sulla dialettica tra la fatale unidirezionalità temporale e il continuo andirivieni tra presente, passato prossimo e passato remoto si struttura dunque un racconto al cui centro si pone il buco nero di un compleanno nel quale sembra che tutto, da un momento all’altro, debba essere risucchiato: non solo Totti, non solo la sua città, ma un intero paese. Già, perché in Speravo de morì prima non c’è solo la romanità del protagonista e del suo mondo (il quartiere popolare in cui nasce, la famiglia, gli amici, la curva Sud), ma tutto un concentrato di quel carattere italiano che, proprio per la costante e irresistibile tentazione di dare vita a fenomeni di regressione individuale e collettiva, appare storicamente affetto da un fondamentale complesso di infantilismo.
Quale migliore occasione, quindi, della parabola esistenziale di un «idolo di consumo» (Lowenthal 1944) noto a tutti con l’affettuoso appellativo di “pupone” per portare sullo schermo tale “questione nazionale” nella forma di un racconto popolare a puntate?
Da un lato ecco allora l’enfasi drammaturgica rivolta verso le varie figure “adulte” e “genitoriali” che circondano il protagonista ad ogni livello veicolando ora una funzione protettiva (la madre e il padre biologici interpretati da Monica Guerritore e Giorgio Colangeli), ora normativa (il “padre autoritario” rappresentato dall’allenatore, il Luciano Spalletti di Gianmarco Tognazzi), ora affettiva (la consorte Ilary Blasi, a cui Greta Scarano restituisce l’amorevolezza ma anche la funzione di guida proprie di una moglie-madre).
Dall’altro lato l’immagine di Totti che di episodio in episodio viene costruita è data dalla somma delle tante immagini di bambini di cui è punteggiata la miniserie, ora nelle varie versioni del calciatore da piccolo, ora in quella del suo stesso figlio Cristian di cui il giovane Pietro Castellitto, interprete del campione giallorosso, appare più un fratello maggiore che un padre. Del resto la scelta così “miscast” di quest’attore a sua volta figlio (d’arte), se non la si vuole considerare un errore di fondo, la si può forse spiegare proprio con la volontà degli autori di enfatizzare nella resa del personaggio la sua dimensione di “fanciullone”. In tale prospettiva, la sua dizione stentata e l’accentuato farfugliare romanesco – una sorta di mix tra la parlata di Ricky Memphis e quella del Lorenzo di Corrado Guzzanti (entrambi gli attori compaiono peraltro in un cameo all’interno della serie) – evidenziano una forma di immaturità che sembra manifestarsi già sul piano dello stesso linguaggio.
Intorno e tra tutto questo c’è il popolo giallorosso, quello che le immagini della serie mostrano come popolo inneggiante sugli spalti dell’Olimpico, come popolo festante per le strade di Roma il giorno della conquista dello scudetto del 2001, o anche come popolo minaccioso in occasione delle contestazioni rivolte in vari momenti alla squadra e alla società. Ma soprattutto quale massa di persone che spera de morì prima (come si lesse in uno striscione esposto all’Olimpico quel 28 maggio) di dover assistere al traumatico evento dell’uscita di scena del suo idolo, quindi come sorta di popolo bambino, per usare la terminologia con cui Antonio Gibelli indica quella «costruzione simbolica e retorica artificiale» coincidente nuovamente con uno storico tratto dell’italianità (Gibelli 2005).
Questa sottolineatura degli aspetti che rendono la figura di Francesco Totti non soltanto un simbolo della sua città ma, più in generale, un’icona nazionale non può che esplicitarsi al massimo grado nel finale di serie da cui si è partiti e nel quale entra in gioco un’altra fondamentale dimensione profondamente innestata nella tradizione culturale e nell’immaginario del nostro paese: l’«effetto Pinocchio» (Stewart-Steinberg 2011). Si pensi al momento “magico” in cui dal pullman della Roma, giunto nei garage dello stadio Olimpico poco prima di quella fatidica Roma-Genoa, si vede spuntare il vero Totti e non più il suo interprete, come se il burattino-attore Castellitto si fosse trasformato nel “pupone” in carne e ossa nel quale persona e personaggio possono finalmente coincidere.
In questo re-enactement finale l’ex calciatore torna a sottoporsi, in una sorta di dolorosa reviviscenza, ai momenti preparatori del rito di passaggio di cui s’è detto: l’ingresso allo stadio, la riflessione solitaria nello spogliatoio e nei corridoi sotterranei che conducono al campo. Dalla ricostruzione si passa quindi, tramite le immagini di repertorio, alle schegge salienti della partita e soprattutto all’ormai celebre discorso di congedo. Qui la serie non può che limitarsi a riproporre i tratti più intensi dello spettacolo epico e melodrammatico messo in scena all’Olimpico in occasione dell’ultima giornata del capitano giallorosso da giocatore.
La morte dell’infanzia – materializzata nel romanzo collodiano dal burattino inerte del finale che ha lasciato il posto al «bel fanciullo […] cogli occhi celesti» (Collodi 1902, p. 294) – si traduce ora nelle parole di quella lettera di addio al calcio letta da Totti tra le lacrime. Dedicata in primis proprio ai bambini (a quelli «che hanno tifato per me, a quelli di ieri che ormai sono cresciuti e forse sono diventati padri e a quelli di oggi che magari gridano “Totti goal”»), essa culmina con una rassegnata dichiarazione di accettazione della fine dell’età del gioco e di ingresso nell’età adulta che sembra inesorabilmente dettata da un grillo parlante: «Da domani sarai grande, levati i pantaloncini e gli scarpini perché tu da oggi sei un uomo».
Riferimenti bibliografici
C. Collodi, Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, Bemporad, Firenze 1902.
A. Gibelli, Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò, Einaudi, Torino 2005.
E. Katz, D. Dayan, Le grandi cerimonie dei media. La storia in diretta, Baskerville, Bologna 1993.
L. Lowenthal, Biographies in popular magazine, in P. Lazarsfeld, F. Stanton, a cura di, Radio Research 1942–1943, Duell, Sloan and Peirce, New York 1944.
S. Stewart-Steinberg, L’effetto Pinocchio. Italia 1861-1922. La costruzione di una complessa modernita?, Elliot, Roma 2011.
G. Tagliani, Biografie della nazione. Vita, storia, politica nel biopic italiano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2019.
Speravo de morì prima. Ideazione: Stefano Bises, Michele Astori; regia: Luca Ribuoli; soggetto: Un capitano di Francesco Totti e Paolo Condò; interpreti: Pietro Castellitto, Francesco Totti, Greta Scarano, Gianmarco Tognazzi, Monica Guerritore, Giorgio Colangeli; produzione: Sky Studios, Wildside, Capri Entertainment, Fremantle, The New Life Company, Kwaï; distribuzione: Sky, Fremantle; origine: Italia; anno: 2021.