Pinocchio è un libro — ma si potrebbe anche dire un archetipo, una maschera, una icona — infinito. Le sue definizioni, coniugazioni, aggettivazioni sono plurime: un libro parallelo (Manganelli), uno e bino (Garroni), iniziatico (Zolla). Una studiosa come la Stewart-Steinberg in L’effetto Pinocchio lo elegge a epitome della formazione di una identità italiana e come chiave di accesso di questa alla modernità. Seguendo il percorso della studiosa arriviamo a prefigurare nell’immagine di Pinocchio una sorta di anticipazione del dispositivo cinematografico, inteso (in accordo con uno psicoanalista freudiano, Tausk) come «macchina influenzante».

In fondo cura psicoanalitica e transfert cinematografico sono venuti al mondo negli stessi anni novanta del XIX secolo. Lo schermo, l’ombra, il sogno, la metamorfosi del corpo, l’automa come “homo cinematographicus”, mettono in assonanza la modernità perturbante del burattino con una genealogia dell’artificiale da cui, fin dall’antichità e dal medioevo, discende l’invenzione “senza futuro” dei Lumière. Insomma, non a caso cinema e Pinocchio sono solidali, si richiamano l’un l’altro per vie traverse e vanno a diffrangersi in una successione (fin dal muto) di schermi entro cui si è riflesso un essere che è al contempo marionetta, maschera, automa e parvenza, corpo sottile, stato nascente, transito tra legno e carne, tra burattino e bambino. E tale movimento pinocchiesco è, direbbe Deleuze, un movimento desiderante, un “divenire bambino” che si muove contemporaneamente a un “divenire animale” e a un “divenire umano” che, per così dire, fa corpo con il dispositivo.

Se proviamo a risalire questi schermi di Pinocchio ci accorgiamo subito di un fatto: le avventure sono quelle di una figura che si fa tutta intera metafora dell’identità, del suo processo di formazione e individuazione, in altri termini della crescita. E poi di un altro fatto: questa nascita-crescita-morte-rinascita si svolge in un arco di tempo che è insieme velocissimo (dinamico: le continue fughe dell’immagine di Pinocchio) e immobile, metafisicamente immoto (pensiamo leggendo Pinocchio ai “manichini” dechirichiani nelle piazze italiane, ad esempio), futuristico (l’ossessione automatica) e arcaico (l’immagine ancestrale del fanciullino pascoliano).

In modo tale che l’immagine di Pinocchio può diventare fantascientifica, solcando i millenni (come si vede in AI di Spielberg), e riconnettersi agli antichi misteri isidei. Collodi, uomo colto e iniziato ai misteri massonici, oltre che libertario e irridentista nel procedere risorgimentale, ha sicuramente presente il modello dell’Asino d’oro di Apuleio, della fabula misterica, di quel romanzo ellenistico che termina con la metamorfosi dell’asino in essere umano. E ancora ci accorgiamo di un terzo fatto: quelle avventure sono una continua messa in scena. Pinocchio è preso fin dall’inizio da una forsennata compulsione esibizionistica, per attingere alla sua identità, al processo di riconoscimento del proprio corpo-bambino racchiuso nel legno. Il teatro dei burattini e il “riconoscimento” delle mascherine di Mangiafuoco ha questo senso, così come l’incamminarsi verso il Paese dei Balocchi, spettacolarizzazione della pulsione ludica infantile, ma anche la sua pulsione alla bugia, all’inventare storie, e il suo esibirsi da ciuchino in un circo. Insomma Pinocchio è anche un corpo attoriale, e il suo stesso raccontarsi entro la “Storia di un burattino”, il cui destino è un palcoscenico, assume questa valenza.

Ora, come tutto ciò si può riscontrare nelle varie versioni cinematografiche di Pinocchio? Che il corpo-Pinocchio sia assimilabile al trasformista, al clown, ai ritmi da comica finale è subito chiaro dall’inizio della prima versione italiana per il cinema  del romanzo di Collodi, il Pinocchio (1911) di Giulio Antamoro. Qui c’è un prologo rivelatore: un sipario che si apre, su un palcoscenico sbuca un celebre comico-clown, Ferdinand Guillaume, conosciuto dal pubblico italiano come Tontolini, in inappuntabile frak da fantasista. Una capriola, un capitombolo all’indietro ed ecco che Tontolini diventa Pinocchio, con la cuffietta a pan di zucchero e l’abitino a fiori, e per giunta introduce al pubblico l’attore che fa Geppetto. Un trucco alla Meliès, e insieme una attrazione, un gesto circense (Guillaume è anche conosciuto come Polidor, e con questo nome reciterà da anziano per Fellini).

Pinocchio corpo attoriale fin da subito dunque, e da subito corpo eccentrico e cinetico. Il film di Antamoro è una sequela di “effetti speciali” ante litteram, e una cavalcata nei generi nascenti. Pinocchio finisce tra i pellerossa e i soldati canadesi lo salvano dai cannibali sparandolo con un cannone e proiettandolo in aria su una palla-proiettile come il coevo “sogno” del Barone di Munchausen di Méliès.

Che Pinocchio sia incarnazione di un desiderio, di un desiderio paterno di generare, di dare alla luce e destinare alla crescita una identità — che si fa metafora dell’“american way of life”, della capacità di realizzare il “sogno” e il “diritto alla felicità” — lo si vede con il film disneyano del 1940. Qui intanto non a caso Geppetto è un artigianoun costruttore di orologi, oltre che di marionette, un “costruttore di tempo”, di quei meccanismi ad orologeria che si animano e danno spettacolo. Qui Pinocchio diventa un “nato due volte” (come gli iniziati), dal momento che dopo essere stato intagliato come marionetta, ed essersi esibito in un numero danzato da musical, viene fatto rinascere come burattino (già) bambino, provvisto di vita propria, a opera di una stella discesa dal cielo che prende figura di Fata Azzurra, colei che dà corpo e realizza i desideri (la canzone premio Oscar del film recita “When you wish upon a star”, “quando tu desideri rivolto a una stella”).

Con la seconda versione italiana di Pinocchio, Le avventure di Pinocchio (1947) di Giannetto Guardone, interviene la soluzione di affidare il ruolo a un attore bambino “in veste” di Pinocchio. Siamo in clima neorealista, che in questo film scivola nell’illustrazione e nel mimetismo. Ma il paesaggio rurale, il sostrato contadino, il realismo icastico che pure è presente in Collodi (mirabilmente coniugato con spinte simboliste, presurrealiste e retaggio da romanzo gotico) può essere per il cinema italiano anche una opportunità.

Il bisogno di incarnare le idee (e le ideologie), rendere tutto umano, è una prerogativa del grande cinema italiano. Ciò porta a far comprendere a Luigi Comencini, nobile esponente di questa tradizione, qual è la strada giusta per figurare Pinocchio: assumerlo come ibrido metamorfico, bambino e burattino insieme, carne e legno a seconda di come si comporta o viene visto.

Il fatto è che Pinocchio non è né un bambino, né un burattino, è una idea. È un’idea che riassume tutto quello che si può pensare e dire di buono e di cattivo sull’infanzia (Fedi, 1990, p.11).

Il Pinocchio televisivo di Comencini è credibile e fantastico insieme, la sua piccola Italia è quella delle campagne e dei borghi che le guerre non sono riuscite a cancellare e le sue visioni sono i sogni e i desideri della nostra infanzia, fatta di paure e di desideri. Eppure questa stessa Italia, la cui identità è dimidiata tra lo scetticismo fatto di paure e diffidenze e i desideri fatti di illusioni e sogni, può essere raccontata, discendendo nell’ “inconscio italiano”, attraverso questo libro e questo archetipo così radicale.

Per Fellini (che ha inseguito l’idea di farne un film e lo ha trasposto nel Casanova, come compulsiva marionetta sessuale, e nella lunaticità del matto Benigni, assimilato a Pinocchio e a Leopardi, in La voce della luna) Pinocchio era un libro “oracolare”, da consultare magicamente come l’I Ching cinese. Allora il burattino ci appare come la creaturalità stessa nella sua declinazione onirica e metafisica, e insieme nella sua ibrida fisicità, la voce umana-animale che ci trascende e ci “in-canta” (come ha mostrato Carmelo Bene). È anche l’ombra che si distacca, come nelle favole romantiche, dai nostri corpi di adulti-bambini, e che maschera le nostre anime (in tal senso il finale della versione di Benigni è indicativo).

Prende forma dunque una connessione che arriva fino al film di Matteo Garrone, dove è perturbante il corpo del bambino percorso da nervature arboree come linfe di vita naturale e che “rinasce” in mezzo alla natura, in una stalla popolata di capre. La connessione tra la paura di crescere, di diventare grandi, e al contempo il desiderio di restare bambini per sempre. Ma, come sapeva Kubrick, il sogno può essere rovesciato: desiderio di far parte della cerchia segreta degli adulti e paura di essere inermi come bambini, in sostanza paura e desiderio insieme di crescere, di identificarsi dietro una maschera, salvo poi guardarsi, come abbiamo fatto da bambini, dentro uno specchio e provare un brivido strano, quello di avere un corpo che si anima.

Riferimenti bibliografici
P. Fabbri e I. Pezzini (a cura di), Pinocchio. Nuove avventure tra segni e linguaggi, Mimesis, Milano 2012.
R. Fedi (a cura di), Carlo Collodi. Lo spazio delle meraviglie, Edizioni Banca Toscana, Firenze 1990.
S. Stewart-Steinberg, L’effetto Pinocchio. Italia 1861-1922 la costruzione di una complessa modernità, Elliot, Roma, 2010.

Pinocchio. Regia: Matteo Garrone; sceneggiatura: Matteo Garrone, Massimo Ceccherini; fotografia: Nicolaj Brüel; montaggio: Massimo Spoletini; musiche: Dario Marianelli; interpreti: Federico Ielapi, Roberto Benigni, Rocco Papaleo, Massimo Ceccherini, Marine Vacht, Gigi Proietti, Aida Baldari Calabria; produzione: Recorded Picture Company; distribuzione: 01 distribution; origine: Italia; durata: 125′.

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