C’è un mistero nei film di Rohmer. Il suo mondo, che ci sembra così prossimo, di “persone come noi” (secondo i dettami aristotelici sulla commedia), alle prese con questioni d’amore, che affidano alla parola le loro relazioni, di fatto è un mondo opaco, distante da ogni possibile immedesimazione. E quella forma commedia, che lui stesso si attribuisce (nella serie Commedie e proverbi), non prende la forma né del racconto dell’opposizione dei vecchi ai giovani (come nella commedia attica antica), né quella di “caratteri” marcati che prevalgono sugli intrecci (come nella commedia nuova). Non ci si ricorda di personaggi particolari in Rohmer che si stagliano sulle storie né di intrecci avvincenti, se non in alcuni rari casi ripresi da modelli letterari (La marchesa von…, Perceval).

Che cosa ci attrae, dunque, se gli intrecci non sono avvincenti ma iterativi, e distribuiti secondo una ricorsività seriale? Se personaggi e contesti sono al fondo anonimi? E se l’amore, molto spesso affidato ai dialoghi, è senza i contrassegni della passione (presenti in Truffaut) e senza neanche una marcata dimensione erotica, nonostante il proliferare di triangoli e relazioni adulterine? Che cosa cercano questi personaggi? E Rohmer con loro? E noi stessi, legati a questo cinema dove la differenza è il modo in cui si percepisce la ripetizione?

Prendiamo Racconto d’inverno (1992, dai “Racconti delle quattro stagioni”). Il film si apre con le immagini ideali, quasi edeniche, di un incontro d’estate tra un ragazzo e una ragazza. Li vediamo su una barca a pescare, a fare il bagno nudi, ad abbracciarsi, a fare l’amore. Gioia e spensieratezza si susseguono accompagnate da una musica al piano, fino ai saluti alla stazione, con scambio di indirizzi per potersi rincontrare. Lui, Charles, è un cuoco e andrà negli Usa, lei, Félicie, resterà in Francia. Ma quegli indirizzi erano sbagliati, lo capiamo subito. La ragazza per un “lapsus” (come dirà in seguito) darà l’indirizzo della città sbagliata (Courbevoie invece di Levallois) e lui non sa dove andrà esattamente negli Stati Uniti. Questo incontro segna l’intero film. Ciò che vediamo accadere cinque anni dopo (come ci indica la didascalia). E durante questi cinque anni Félicie crescerà anche la figlia nata dall’incontro con Charles (che non sa nulla della sua paternità).

Un elemento chiave nel cinema di Rohmer è l’incontro, con la capacità che ha di trasfigurare l’esperienza, sospendendone la connessione ordinaria. L’incontro è sempre legato alla singolarità di un momento e a un perimetro temporale definito, identificato spesso dai titoli stessi dei film: dalle stagioni (nei film del ciclo) ai momenti della giornata (L’amore, il pomeriggio), dalle parti di corpo (Il ginocchio di Claire) ai piccoli eventi (Il raggio verde) e via dicendo.

L’incontro, qualcosa che da fuori ci giunge e che scarta dalla volontà dell’azione, chiede una risposta. Che molto spesso nei personaggi di Rohmer è elusiva. Félicie si sottrae alla scelta che l’incontro richiedeva. Il “lapsus” è di fatto una forma di elusione. Félicie stessa lo dice: “Sono la ragazza che nessuno può trovare”. Che significa la ragazza che nessuno può identificare né scegliere fino in fondo. Gli uomini che se la contendono possono semmai essere ammaliati da questo tratto sfuggente e dalla incapacità di scegliere della ragazza: “L’importante è che non sia sempre obbligatorio scegliere” – dice Félicie alla madre, che le risponde: “Ma una volta dovrai pur scegliere!”.

Félicie è divisa tra Maxence, un parrucchiere che “ama ma non abbastanza” e un bibliotecario, Louis, che in un certo senso “ama più di Maxence”, ma che di fatto preferisce avere come “amico”. Ma è soprattutto con quel terzo “ideale” che Félicie vorrebbe vivere: “Un sacco di donne vorrebbero vivere con un uomo diverso da quello con cui vivono. Ma non esiste, è solo un sogno. Per me questo sogno è stata una realtà. È una realtà, ma una realtà assente”. Ed ancora: “Ho visto che non potevo vivere con qualcuno che non amavo alla follia”.

Ma che c’è al fondo dietro tutte queste parole? Parole che sembrano d’amore ma che invece mantengono il soggetto in una posizione elusiva e difensiva rispetto all’amore stesso? Cosa c’è dietro l’idea che “c’è amore e amore” – come dice Félicie – per giustificare la sua “non scelta”?

C’è un pervasivo sentimento scettico che nelle intraprendenti ed emancipate donne rohmeriane prende la forma di un continuo fuggire da un oggetto d’amore, sempre mai abbastanza amato e riconosciuto. Uno scetticismo profondo segna tutto il quotidiano dei personaggi, e non solo femminili: «An expression of the everyday mistrust of the world, a sort of mistrust of existence and of what there is to say about one’s existence» (Cavell 2005, p. 438).

Questo radicale scetticismo lo vediamo – ed è uno dei contrassegni di grande originalità del regista francese – prendere corpo in un uso del linguaggio iterativo e teso alla costante opacità. La parola gira costantemente a vuoto. La parola in Rohmer è il corrispondente commedico del silenzio scettico melodrammatico. Il linguaggio diventa insostenibile perché si sottrae ad ogni istanza veritativa. L’atto di parola non chiarisce né genera fraintendimenti, semplicemente tesse progressivamente la rete che lo svuota così come svuota il personaggio. Félicie gira a vuoto e noi appresso a lei fino a quando a teatro, davanti alla messa in scena del Racconto d’inverno di Shakespeare, sente che può riconquistare tutto solo attraverso un puro “atto di fede”, di fiducia cieca nel mondo e nell’altro.

“È la fede che la [Ermione] fa rivivere” dice in automobile a Louis, dopo lo spettacolo. Ed è anche ciò Félicie ha sentito il giorno prima, entrando in una chiesa a Nevers (dopo aver lasciato Maxence), cioè la conquista di una “chiarezza”: “Di colpo è divenuto tutto chiaro. […] Ho visto ciò che dovevo fare”. Dalla confusione alla chiarezza per effetto di una “visione” e di una certezza assoluta e immotivata nel proprio desiderio: “Perché ho la certezza di amare Charles? Perché ne sono così sicura?”. In un teatro, così come in una chiesa, nasce una “fede”, una scommessa sulla vita che implica una riconquista comunque della vita stessa (anche se Charles non dovesse tornare). Scommessa che Louis stesso definisce pascaliana, e che in ogni caso riattiva una fiducia nella vita che non è stato possibile generare nelle relazioni tra gli uomini e attraverso atti di linguaggio ordinari. Serve un momento di trasfigurazione dell’ordinario, che passa per la fede in un ritorno alla vita di Ermione (in Shakespeare) o in presenza di Charles (in Rohmer).

Ma la differenza è su un punto, non da poco. In Shakespeare il rianimarsi della statua è effetto della nuova fede di Leonte in Ermione, e della consapevolezza da parte del re che la sua colpevole sospettosa gelosia era stata causa delle tragedie di tutta la prima parte dell’opera: “I’m ashamed. Does not the stone rebuke me for being more stone than it?”. Sulla base di questo sentimento di “vergogna”, riscattabile solo attraverso la “fiducia” in Ermione, si chiude in commedia ciò che era iniziato in tragedia.

In Rohmer la questione è più complessa: la trasfigurazione del personaggio, il suo improvviso mutare non segue ad alcuna consapevolezza né ad alcun processo di crescita. È la visione “improvvisa” di una fede obbligata (che sospende l’ansia di scelta, come la ragazza confessa). Visione che contiene anche tratti “estetizzanti” (in un linguaggio kierkegaardiano), cioè immediati e compiaciuti. Tant’è che nel finale, quando rincontra Charles, questa “fede” acquisita non allontana la sua paura: quando lo vede in autobus con un’altra donna fugge, temendo di vederlo sposato; e subito dopo, a casa della madre, in una riunione familiare per fine anno, quando Charles le propone di seguirlo perché si sta trasferendo in un’altra città, la prima reazione di Félicie è di spavento, si volta e piange.

Insomma, la questione qui – rispetto a Shakespeare – sembra un’altra. L’abbandono di un sentimento scettico, di mancanza di fiducia in se stessi, nel mondo e nel linguaggio, non passa per nessuna presa in carico della propria esperienza. Nessuna parola in grado di descriverla e nessuna comunità allargata capace di condividerla. Ci saremmo trovati davanti ad una forma-commedia classica. Nulla di tutto questo: né commedia né società vera. Ciò che accade nel finale è il mero ritrovarsi ordinariamente festoso della famiglia di Félicie a casa della madre l’ultimo giorno dell’anno, sotto il segno dell’“incredibile” e del “presentito” (a cui fa riferimento la sorella di lei).

Félicie è solo una ragazza che, fragile e scettica, in perenne crisi e senza capacità di scegliere, si abbandona ad una conversione troppo rapida (in chiesa prega, senza essere veramente credente, e di fronte allo spettacolo teatrale “vede” il miracolo della fede), trasfigurando lo scetticismo diffuso in una dimensione in cui viene rialimentata l’illusorietà del racconto edenico iniziale. Il “miracolo” della ricongiunzione non sembra essere veramente tale, ma solo la svolta “presentita” alla crisi scettica attraverso il ritorno all’“illusione”. Non c’è nulla del “miracolo” di Rossellini in Rohmer, come lo stesso regista conferma (cfr. Tassone 1988, p. 18).

Per la Delphine de Il raggio verde (grande successo di Rohmer di qualche anno prima, 1986), la situazione non era poi così diversa. Una ragazza solitaria e diffidente, rimasta sola durante l’estate e single oramai da due anni, passa tra amici e parenti per trovare una soluzione alla sua inquietudine e alla sua necessità di trascorrere le vacanze. Si lamenta con tutti, manca di fiducia in sé, e attraversa – come spesso in Rohmer – uno stancante succedersi di situazioni, in un avvitamento linguistico, che la fa girare fastidiosamente e lungamente a vuoto. Fino a quando cartomanzia (un re di cuori trovato a terra) e finzione romanzesca (Le rayon vert di Dumas come “mediatore”), trasformano la disponibilità di Delphine da un inquieto e sfiduciato girare in una capacità di scelta. Sarà lei ad invitare un ragazzo incontrato alla stazione ad accompagnarla a visitare la città. Sarà lei cioè – a differenza di Félicie – a saper prendere l’iniziativa ribaltando la sua posizione passiva nei confronti della vita in attiva (a seguito anche dell’esperienze attraversate). E da lì, attraverso un ulteriore segno premonitore, il nome del negozio “Le rayon vert”, Delphine si siede di fronte al mare con il nuovo ragazzo e al tramonto vede l’ultimo raggio di sole, verde appunto, annuncio della possibilità di leggere nei propri sentimenti e vedere la nascita di un nuovo amore.

La disponibilità che caratterizza molti personaggi rohmeriani, contrassegno di una stagione della vita (la gioventù) e dell’anno (l’estate) in cui il “vuoto” degli impegni chiede di essere liberamente riempito dagli incontri, si trasforma quasi sempre in un avvitamento relazionale e linguistico, dove il carattere anodino degli uomini accompagna lo scetticismo narcisistico delle donne: “Non credi agli altri?”. “Io credo alle superstizioni personali” risponde Delphine, per la quale “È tutto vago”. È questa “vaghezza” che ci permette ora di capire il tratto pretestuoso del commedico rohmeriano. La «strangeness to the world» (Cavell 2005, p. 426) è un tratto propriamente romanzesco, così come il vagabondaggio in spazi urbani e non, dove il personaggio è alla ricerca di non sa bene cosa. Questa apparente disponibilità all’incontro viene costantemente negata da un tratto di vaghezza ed estraneità all’esperienza stessa, capace solo di essere trascesa in forma magico-miracolistica, ma mai elaborata in modo “verosimile” come il basso-mimetico della commedia richiederebbe.

Allora, la grande originalità di Rohmer è di aver usato un personaggio femminile moderno e la sua libertà, segnata da uno scetticismo diffuso e indissolubilmente saldato ad un uso del linguaggio minato dalla perdita di senso della “chiacchiera” quotidiana, come intercessore per costruire un romanzesco commedico in grande sintonia con il presente. Con ciò costituendo di fatto l’altro lato del “mutismo” del romanzesco melodrammatico di un autore molto amato da Rohmer come Antonioni – «È un regista che continuo ad amare» (Tassone 1988, p. 17).

Questa sintonia con il presente corrisponde alla costruzione di storie “individualizzate”, adatte ad una “società atomizzata” (Daney 1988), e che sono dunque vicine anche al nostro presente, dove la quotidianità è minata da un eccesso profondamente scettico di comunicazione, dove le “vaghe” chiacchiere sembrano ora essersi trasformate in un infinito ed indefinito chattare.

Riferimenti bibliografici
S. Cavell, Shakespeare and Rohmer: Two Tales of Winter, in Id., Cities of Words, Harvard University Press, Cambridge (MA) 2005.
S. Daney, Attualità di Rohmer, in Eric Rohmer, a cura di S. Toffetti, Fabbri, Milano 1988.
A. Tassone, Incontro con Eric Rohmer, in ivi.

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