È strano come in una situazione di emergenza radicale che invade tutto – pratiche di vita, percezioni, emozioni individuali e collettive –, una situazione in cui il reale emerge con una forza radicale, frantumando realtà illusorie e costruzioni di mondi, entro i quali troviamo il nostro equilibrio; è strano, si diceva, immergersi nelle immagini. E lo è perché le reazioni che abbiamo di fronte alle immagini (non di fronte ai cliché visivi che continuano comunque ad imperversare) non è univoca: da una parte le interroghiamo – ed esse ci interrogano – cercando in loro uno sguardo sul mondo; dall’altra alcune ci appaiono anacronistiche, fuori luogo: basta guardare le pubblicità televisive e i loro racconti di persone in festa, riunite, assembrate, vicine le une alle altre per rendersi conto di uno slittamento tra l’orizzonte mediatico e l’esperienza del mondo (che è ora, paradossalmente, più forte rispetto a pochi mesi fa). Quel mondo rappresentato ci appare ora in tutta la sua irrealtà, ma a ben pensare, tale irrealtà non è il frutto dell’esperienza attuale, essa c’è sempre stata: semplicemente ora ci appare più chiaramente.
Proprio per questo, oggi, abbiamo bisogno di interrogare le immagini e attraverso di esse interrogare il nostro desiderio, il bisogno che esse stesse siano ancora un tramite per una percezione e una riflessione (del e sul mondo). C’è un tipo particolare di immagini a cui possiamo rivolgerci, forme che nella loro esplicita artificialità, nel loro porsi come qualcosa d’altro dal mero riflesso della realtà, dicono molto di più, ci interrogano molto più profondamente. Sono le immagini del cinema, del cinema che ci interessa, del cinema presente, passato e forse futuro che, lungi dal costituire un rifugio, sono forme che ci spingono a pensare l’artificialità della realtà che spesso abbiamo chiamato mondo.
Forse alcune immagini più di altre, o diversamente dalle altre, ci spingono a riflettere, a ripensare il loro potere, la fascinazione che suscitano in noi. Alcune immagini si pongono davanti a noi rivelando la loro contemporaneità, se non al reale, al desiderio che noi abbiamo di esorcizzarne la potenza perturbante.
Sono le immagini animate quelle di cui stiamo parlando. L’animazione contemporanea non è più, ormai da tempo, un luogo a parte del mondo delle immagini cinematografiche. L’animazione ha conquistato nel tempo un ruolo sempre più importante, in un certo senso uscendo dai propri confini e ibridandosi con la forma cinematografica live-action, creando mondi e corpi ibridi o che interagiscono con immagini del mondo. Il cinema di animazione è esso stesso un mondo. Un territorio in costante espansione il cui senso, il cui ruolo cambia di volta in volta.
Perché parlare però di animazione come immagine contemporanea? Già Ejzenštejn, quando paragonava il fascino dell’animazione all’incantamento provato di fronte all’immagine del fuoco, individuava chiaramente qualcosa di molto significativo: il potere dell’animazione è la sua potenza di trasformazione, il fatto di cambiare costantemente, di diventare qualsiasi oggetto del mondo, replicarlo, inventarlo, trasformarlo.
Una metamorfosi infinita il cui piacere è profondo e risiede proprio nella sua potenza: il poter venire ad essere di un mondo del desiderio, mimetico o astratto, espressionista o minimale, realizzato con tecniche tra le più diverse, ipertecnologiche oppure artigianali. Un mondo del desiderio.
Di fronte ad un reale la cui sostenibilità si fa più difficile, l’animazione sembrerebbe offrire — parafrasando il Godard de Il disprezzo (1963) — un mondo che si accorda ai nostri desideri. Un mondo controllato e controllabile perché ne siamo gli artefici; un mondo di promesse, un rifugio. Ma è proprio così? Si potrebbe fare un esempio per provare a dare una risposta.
Seguendo la tendenza ormai dominante in casa Disney, il remake live action di Lilly e il vagabondo (2019), diretto da Charlie Bean, astro nascente dell’animazione mainstream, si pone come un’ulteriore tappa della riscrittura dei propri classici da parte della potentissima casa di produzione. Forse lontano dalla precisione chirurgica dei film di Jon Favreau o dalla rilettura poetica e disincantata insieme delle operazioni firmate Tim Burton, il film è però emblematico per quanto riguarda il discorso sopra accennato. Utilizzando veri attori e veri cani, i cui corpi sono però sottoposti ad una operazione di trasformazione digitale, il film di Bean si pone ancora di più all’interno di quella forma ibrida che attraversa il cinema d’animazione contemporaneo. Il mondo di Tramp e di Lady è un mondo al tempo stesso totalmente ricreato artificialmente e ossessivamente mimetico. Immerso in una luce antinaturalistica, il film diventa la rappresentazione di un mondo a cui credere, in cui sospendere, sia pure per poco tempo, la consapevolezza di trovarsi di fronte ad un territorio animato, in cui i corpi filmati stessi sono animati.
Un sogno, si dirà: appunto lo spazio per un rifugio dentro una realtà controllata e senza pericoli. Eppure quel film, così come molte altre opere del cinema contemporaneo di animazione, apre anche un’altra riflessione, proprio a partire dalla mimesi che crea. Quelle immagini animate sono al tempo stesso totale artificio e apparenza di realtà; creano una realtà altra che si presenta perfettamente identica alla realtà (anche essa costruita), in cui noi siamo immersi: sono, di fatto, perturbanti.
È la stessa parola – animazione – a conservare in sé un elemento di inquietudine; essa ha a che fare con il desiderio, sì, ma anche con la dimensione animistica dell’immagine, che permette ad esempio a Simone Massi di rianimare la vita di una famiglia falcidiata dalla guerra in La strada dei Samouni (2018) di Stefano Savona, o di rivedere in vita Peter Cushing in Rogue One – A Star Wars Story (2016). O ancora, si può pensare all’animazione come spazio dell’impossibile, come estrema possibilità di rendere visibile ciò che altrimenti è impossibile vedere (è la tesi centrale de L’immagine mancante, 2013, di Rithy Panh).
L’immagine animata è o può essere disturbante: basti vedere un film unico come Anomalisa (2015) di Charlie Kaufman – lo sceneggiatore di Se mi lasci ti cancello (Gondry, 2004) – per coglierne il potere destabilizzante. L’animazione è sogno, certo, ma un sogno dal quale ci si può anche non risvegliare mai, come in Waking Life (2001) di Richard Linklater. Ecco che dunque in questo spazio convivono i sogni prometeici dell’immagine più vera del vero, della fantasia finale (Final Fantasy, 2001, di Hironobu Sakaguchi e Motonori Sakakibara), con i mondi fantastici di Hayao Miyazaki o quelli distopici di Hideaki Anno.
È proprio il carattere unheimliche di queste immagini a colpire, proprio perché ci permette, con una torsione particolare del discorso, di affrontare la questione dell’immagine animata da un’altra prospettiva, vale a dire dal punto di vista del suo interrogare la realtà, o meglio, l’immaginazione della realtà. C’è infatti un filo sottile che scorre tra le immagini animate dello scenario contemporaneo, che siano le pratiche più commerciali e ad alto budget, ossessionate spesso dalla volontà titanica di ingannare la percezione offrendo mondi (in)credibili, o siano le forme più artistiche e concettuali, fondate sulla ricerca di immagini nuove, o sulla fiducia riposta nel potere spesso artigianale del disegno.
Il documentario animato, le tendenze neopittoriche del cinema d’animazione d’autore (soprattutto italiano), la ricerca della dimensione poetica dell’immagine, il rapporto stretto e problematico con la storia dell’arte o con le pratiche artistiche contemporanee: l’animazione espande dappertutto i suoi confini, che si fanno più labili. Questo permette allora al pensiero critico di interrogarle, e, così facendo, di ripensare il nostro desiderio, quanto mai messo sotto scacco nell’emergenza che stiamo vivendo.
Cosa ci affascina e cosa ci inquieta in quelle immagini? L’animazione, il suo movimento, le forme molteplici delle sue tecniche: la dialettica aperta tra somiglianza e alterità del mondo. Tutto questo, si obietterà, non appartiene forse al cinema in sé? Certo, ma questa non è un’obiezione. Parlare di animazione significa parlare di cinema, di qualcosa che appartiene profondamente al cinema. Ecco perché interrogare l’immagine animata, l’idea stessa di animazione significa fare un’operazione critica importante. Scegliere un campo dove sono in gioco aspettative, sogni, desideri e paure.
Riferimenti bibliografici
M. Ejzenstejn, Walt Disney, a cura di M. De Pascale, Castelvecchi, Roma 2017.