La pratica dell’animazione digitale è a tutti gli effetti diventata oggi, per dirla con Philippe Lamarre, «la logica dominante delle immagini in movimento» (Lamarre 2009). Tale affermazione non può essere pienamente colta se non ci si richiama al bacino teorico da cui essa deriva, quello del pensiero di Lev Manovich secondo il quale, com’è noto, l’introduzione sempre più massiccia dell’informatica nel cinema in live action ha reso quest’ultimo un orizzonte ormai non più distinguibile da quello dell’animazione (Manovich 2002). Non è un caso da questo punto di vista che un software di rendering quale Renderman, alla base della gran parte dei visual effect del cinema contemporaneo, sia stato creato proprio da uno degli studi più rappresentativi della nuova animazione computerizzata: la Pixar.
Ebbene, se si pensa al caso che si vuole qui considerare, Rogue One: A Star Wars Story di Gareth Edwards, spin-off del 2016 della saga di Guerre stellari, per la sovrabbondanza di effetti visivi digitali e soprattutto per la peculiarità di alcune creature sintetiche che lo popolano, si può certamente affermare che si tratti a suo modo, nei termini appena precisati, di un film d’animazione. Di più, per il fatto di impiegare quegli stessi software (primo fra tutti proprio il Renderman) per ricondurre alla sua giovinezza un’attrice (peraltro deceduta proprio dopo questo film) e per riportare letteralmente in vita un attore scomparso diversi anni fa, Rogue One è considerabile letteralmente un’opera di rianimazione.
Oltre a far riapparire brevemente la principessa Leila così come si presentava al suo debutto in Star Wars: Episodio IV – Una nuova speranza del 1977 di cui Rogue One è il prequel, il film di Edwards torna infatti a mettere in scena nel ruolo del generale Wilhuff Tarkin, a quasi quarant’anni dalla sua prima apparizione nella saga e a più di venti dalla sua morte, l’attore britannico Peter Cushing.
Naturalmente non è la prima volta che il cinema torna a far rivivere, grazie all’ausilio delle tecnologie digitali, attori scomparsi. L’elemento di interesse del revenant di Rogue One risiede tuttavia nel fatto che in quest’occasione non si è trattato di fare fronte a un’emergenza determinatasi dall’improvvisa scomparsa dell’interprete durante la lavorazione del film (come nei famosi casi di Brandon Lee ne Il corvo o di Paul Walker nel settimo capitolo della serie di Fast and Furious). Il ritorno sullo schermo del generale Tarkin è piuttosto il frutto di una precisa scelta, quanto mai ardua e rischiosa se è vero che solitamente il completamento della performance di attori deceduti durante le riprese è stato meglio recepito dal pubblico rispetto alla riproposizione dell’immagine di interpreti scomparsi da tempo (Bode 2007).
Prima dunque di entrare nel merito del simulacro digitale di Cushing in Rogue One va evidenziato come la resa audio-visiva di quest’ultimo torni a sollevare una serie di riflessioni radicate in un dibattito teorico accesosi già quasi vent’anni fa, in coincidenza in particolare con l’uscita nel 2001 di Final Fantasy, salutato come primo film popolato da attori esclusivamente digitali. O meglio da synthespian (da synthetic thespian, attore sintetico), una delle ultime frontiere della tecnologia digitale impiegata per la realizzazione di un’utopia tanto azzardata quanto ancestrale: quella della creazione di una figura totalmente artificiale a perfetta immagine e somiglianza di quella umana.
Tra gli anni ’90 e i primi 2000 l’idea che il synthespian potesse prima o poi rimpiazzare gli attori reali ha veicolato molte delle ansie legate alla dimensione filosofica e culturale del postumano, la medesima che del resto già da tempo aveva alimentato lo stesso immaginario prima letterario e poi cinematografico di tanta science fiction. È questa la cruciale fase storica e culturale in cui il cinema blockbuster si ritrova in prima linea a riflettere con singolare lucidità sui possibili sviluppi di uno scenario antropologico, filosofico, etico ed estetico nel quale il concetto di umano fronteggia una sua radicale ridefinizione per via di una tecnologia che sta modificando profondamente il corpo dello stesso apparato mediatico.
Non è un caso dunque che proprio in tale cruciale periodo, radicalizzando quanto già rappresentato in titoli paradigmatici quali Blade Runner (1982), Videodrome (1983) o nei primi Alien (1979, 1986), film come Terminator 2 – Il giorno del giudizio (1991), Jurassic Park (1993), Matrix (1999) o A.I. – Intelligenza artificiale (2001) attestino la piena funzione di luoghi comuni della cultura popolare assunta dallo «spettro delle “macchine viventi”», dalla «rianimazione della materia morta e di organismi estinti», dalla «destabilizzazione dell’identità e delle differenze di specie», dalla «proliferazione di organi prostetici e di apparati di percezione» e dall’«infinita malleabilità della mente e del corpo umani» (Mitchell 2003).
In tale fase iniziale il synthespian diventa così un «concetto quasi-mitologico» (North 2007), una sorta di “sacro Graal” dell’industria degli effetti digitali e in fondo della stessa Hollywood, come dimostrano le medesime narrazioni da essa prodotte anche negli anni successivi (il caso di S1m0ne di Andrew Niccol del 2002, in tal senso, è emblematico). Attribuendo all’attore virtuale una sostanziale autonomia di volontà e di agency si finisce in tal modo per rivitalizzare il mito di Frankenstein, ossia la «paura della replicazione e dell’obsolescenza, della nostra sostituzione tramite costrutti digitali in grado di superare ogni nostra capacità e sfumatura», ma soprattutto la nostra stessa finitezza (North 2008).
Ebbene, per poter arrivare a comprendere pienamente lo statuto della performance digitale di Cushing in Rogue One si deve ricordare che questo paradigma concettuale viene progressivamente superato da alcune pratiche tecnologiche e performative particolarmente rilevanti proprio dal punto di vista del significato teorico da esse veicolato. Il riferimento va alle produzioni realizzate a partire dai primi anni 2000 da Peter Jackson, Robert Zemeckis, James Cameron e Steven Spielberg nelle quali la fisionomia di attori e divi è stata trasfigurata nelle fattezze, in alcuni casi da cartoon, di personaggi interamente digitali interpretati grazie alla motion e performance capture.
Con il Gollum della trilogia de Il signore degli anelli (2001-2003) e i protagonisti di Polar Express (2004), La leggenda di Beowulf (2007), A Christmas Carol (2009), Avatar (2009) e Le avventure di Tintin – Il segreto dell’unicorno (2011) si è imposto qualcosa di diverso da ciò che accadeva in Final Fantasy, che pure è stato realizzato in motion capture. Dal concetto di synthespian in quanto sostituto dell’attore reale si è passati a quello di digital character quale “transformative avatar” dell’attore o star umana. L’interprete reale dunque — che fosse Andrew Serkis, Tom Hanks o Jim Carrey — ha recuperato in tale orizzonte una sua centralità quale “operatore umano” dell’avatar digitale.
Così, com’è stato enfatizzato anche da tutta la produzione paratestuale dei film in questione (in primis dai contenuti extra dei DVD), mentre i creatori del synthespian, come succedeva in Final Fantasy, minimizzavano il coinvolgimento degli attori reali al fine di enfatizzare i prodigi miracolistici dei computer che li avrebbero sostituiti, registi quali Jackson, Zemeckis, Cameron e Spielberg hanno ripensato la tecnologia digitale come mezzo per espandere la gamma di abilità del performer umano.
Anche a livello del dibattito teorico l’iniziale tendenza “futurologica” è stata progressivamente sostituita da una propensione di natura genealogica o archeologica che ha cercato di mettere in connessione gli attuali dispositivi con le analoghe mediazioni tecnologiche tra live action e animazione già in azione più di cento anni fa (si pensi al rotoscopio ideato dai fratelli Fleischer alla fine degli anni ’10 del ‘900).
Ed eccoci nuovamente alla rianimazione dell’attore Peter Cushing in Rogue One, effettuata proprio tramite motion e performance capture, esempio di una sfida particolarmente problematica poiché, nella riproposizione di un personaggio dai tratti umani fotorealistici (come già accaduto all’epoca di Final Fantasy), essa sollecita il ritorno di una cruciale dimensione: quella del perturbante freudiano. O meglio, del suo aggiornamento teorico all’epoca digitale: l’“uncanny valley”.
Il riferimento va al testo elaborato nel 1970 dallo studioso di robotica Masahiro Mori a partire dalle celebri riflessioni di Ernst Jentsch, Otto Rank e appunto Sigmund Freud. A lungo trascurato, quello di Mori è un saggio incentrato sui rischi dell’eccessiva umanizzazione dei robot e sulla sottolineatura di come il senso di familiarità, e quindi di empatia, di questi ultimi aumenti al crescere della somiglianza con l’essere umano, ma descriva un brusco crollo quando esso diventa eccessivo, portando a una reazione contraria: un effetto perturbante appunto dovuto alla sostanziale difficoltà di discernere l’organico dall’inorganico (graficamente Mori descrisse la relazione tramite ordinata e ascissa nominando la zona in cui veniva riscontrato il calo di familiarità come quella appunto della “valle perturbante”).
Applicando questa concettualizzazione ai digital character antropomorfi e fotorealistici animati con motion e performance capture, come appunto il generale Tarkin in Rogue One, si può affermare che la loro uncanny valley derivi proprio da quella compresenza di live action e animazione in cui risiede la doppiezza e l’ambiguità di simili costrutti sintetici. Da un lato infatti la motion e la performance capture sono ancora tecnologie indexicali in quanto fondate sul prelievo dell’“impronta dell’attore” (Uva 2011). D’altro canto, le nuvole di punti da esse prodotte nel computer non sono altro che la materia prima del successivo e decisivo processo di animazione.
Sono proprio simili tecnologie del resto ad aver contribuito ad alimentare il dibattito teorico sull’ontologia dell’animazione nell’epoca digitale. Se alcuni infatti le considerano ancora a tutti gli effetti tecniche d’animazione, altri le escludono totalmente da tale novero, come ha fatto ufficialmente nel 2010 l’Academy of Motion Picture Arts and Sciences sostenendo che la sua categoria Animated Feature possa considerare soltanto opere nelle quali «il movimento e la performance del personaggio sono creati usando la tecnica del frame by frame».
Se da un lato insomma le qualità aptiche delle superfici corporee digitali (ormai giunte a un livello di fotorealismo estremo), unite ai movimenti biologici dell’attore in carne e ossa acquisite tramite motion e performance capture, potenziano la simulazione incarnata dei movimenti osservati dallo spettatore sullo schermo (Gallese, Guerra 2015), dall’altro i medesimi corpi numerici costringono il pubblico alla realizzazione disturbante che l’inorganico possa operare nutrendosi dello spirito umano. Aspetto, quest’ultimo, che si intensifica all’ennesima potenza di fronte al simulacro di un attore deceduto il quale, nella fattispecie del generale Tarkin di Rogue One, si nutre del bios di un altro interprete in questo caso vivente (Gay Henry).
Il punto tuttavia è quello già più sopra evidenziato: nel caso preso in esame non ci si trova in presenza di un synthespian ma di un digital character. Quella sullo schermo, cioè, non è la persona Peter Cushing ma il suo corpo in immagine così come appariva già in Star Wars nel 1977, ossia il personaggio del generale Tarkin, che in Rogue One viene svuotato dello spirito dell’attore scomparso nel 1994 e riempito di quello di Henry.
D’altro canto il corpo dell’attore cinematografico è sempre stato di per sé «corpo-fantasma», «corpo spossessato» (Cappabianca 2012). Motivo per cui tecniche come la motion e performance capture, usate per rianimare Cushing/Tarkin, non hanno fatto altro che radicalizzare il principio, già proprio del cinema analogico, per cui ogni corpo che sul set ha uno spessore, una volta diventato immagine si rende virtuale.
Nell’epoca della riproduzione digitale in cui non ha più senso la distinzione tra originale e copia e nemmeno quella ontologica tra vita e morte nella rappresentazione, le copie perfette (dell’umano) sono perciò «non solo riproducibili all’infinito ma sono ora aperte ad una malleabilità altrettanto illimitata» (Sperb 2012). Tale malleabilità è quella propria dell’animazione digitale che, nel caso di revenant come Cushing/Tarkin, diventa appunto una vera e propria rianimazione, laddove è l’anima di un attore vivente a riportare in vita il personaggio una volta incarnato da un interprete oggi irrimediabilmente assente.
Proprio in ciò risiede la natura profondamente perturbante di simili redivivi digitali, i quali in fondo non fanno altro che riproporci il «lutto per qualcosa che non si è mai realmente posseduto» (Pitassio 2011) e nella fattispecie, per dirla con André Bazin, il «cadavere differito che è in ognuno di noi» (Bazin 1986).
Riferimenti bibliografici
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L. Bode, ‘Grave robbing‘ or ‘career comeback’? On the digital resurrection of dead screen stars, in K. Kallioniemi, K. Karki, J. Makela, H. Salmi (Eds.), History of Stardom Reconsidered, «Online – HPC» (http://iipc.utu.fi/reconsidered/), Turku: International Institute for Popular Culture, 2007.
A. Cappabianca, Alla ricerca del corpo perduto. Perversione e metamorfosi del cinema, Bulzoni, Roma 2012.
V. Gallese, M. Guerra, Lo schermo empatico. Cinema e neuroscienze, Cortina, Milano 2015.
T. Lamarre, The Anime Machine. A Media Theory of Animation, University of Minnesota Press, Minneapolis 2009.
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D. North, Performing Illusions: Cinema, Special Effects and the Virtual Actor, Wallflower, London and New York 2008.
F. Pitassio, Natali di stelle. Di qualche questione genetica e divistica, in «Ágalma. Rivista di studi culturali e di estetica», n. 22, 2011.
C. Uva, Ultracorpi. L’attore cinematografico nell’epoca della digital performance, Bulzoni, Roma 2011.