Tra corpo e anima, secondo Judith Butler, si mette in gioco il riflesso filosofico della gerarchia sessuale, laddove è sottinteso che il corpo appartiene al femminile e l’anima (la coscienza, il logos, il raziocinio) al maschile (Butler, 2013). Non che le donne, a parere di filosofi e teologi, non abbiano anima, bontà loro, ma è un’anima, per così dire, di grado inferiore, comunque esposta agli incidenti della corporeità: anche le grandi mistiche delirano, e occorre che la filosofia, dal delirio, prenda le distanze.
Questa, ad esempio, è la ragione per cui i pittori, nel rappresentare la Madonna col Bambino, la maternità divina, il mistero del generare Dio (Dio-uomo, Dio-bambino), di cui ha recentemente scritto Massimo Cacciari, erano costretti a mettere tra parentesi qualunque riferimento al corpo (della Madonna), sempre ampiamente ricoperto da elaborati panneggi (Cacciari, 2017). È per questo, anche, che Tina (Valeria Golino), madre adottiva di Vittoria (Sara Casu), nel film Figlia mia di Laura Bispuri, si mostra così devota alla Madonna e non fa che pregarla. Pregarla di cosa? Che Vittoria non si renda mai conto d’essere figlia biologica di Angelica (Alba Rohrwacher), donna che sembra preda unicamente delle pulsioni del corpo (fa sesso con molti uomini, si ubriaca, urla e straparla). In fondo, Tina vorrebbe che Vittoria non si rendesse mai davvero conto d’essere nata, nata da un corpo biologicamente condizionato, benché la ripresa d’un filmino familiare, una sorta di home movie, stia a testimoniare che anche lei è nata – nata da una ragazza di nome Angelica, ma di fatto tutt’altro che angelica.
Ma perché Angelica accetta di cedere la figlia? In cambio d’una presunta, in realtà sempre precaria, tranquillità economica, ci dice il film. Noi possiamo chiederci se avrebbe fatto la stessa scelta, se si fosse trattato d’un figlio, e la risposta non è scontata. Comunque, sarebbe stato sicuramente diverso, e forse meno disagevole, il percorso di dis-identificazione necessaria, da parte di Vittoria nei confronti di Tina, e poi della stessa Angelica. Ma il punto è: non esiste una gerarchia corpo-anima, tanto meno una prevalenza concettuale dell’anima (del maschile): semmai, il corpo è l’anima.
Figlia mia, peraltro, non si sarebbe potuto chiamare Figlio mio. È una storia che si svolge in un universo di sole donne, in cui gli uomini ricoprono ruoli assolutamente marginali, ma è anche la storia di una faticosa uscita (doppia uscita, visto che Vittoria è figlia di due madri) dall’universo asfissiante dell’identificazione: Vittoria fa leva su Angelica, per staccarsi da Tina, ma poi il rapporto con Angelica rischia di intrappolarla di nuovo. Le figlie devono dire addio alle madri, costringerle a staccarsi dai fantasmi delle bambine che un tempo le madri stesse sono state – o addirittura, rovesciando la prassi, devono prendersi cura di loro, in nome di una difficile, complicata solidarietà al femminile.
Figlia mia espone queste tesi con chiarezza anche eccessiva, non senza imperfezioni e limiti collegati, crediamo, all’eccessiva dipendenza dal progetto drammaturgico (della sceneggiatura è co-autrice Francesca Manieri, già collaboratrice della Bispuri per il corto Passing Time e per Vergine giurata). La diversità delle due madri rimane a lungo eccessivamente programmatica. Il nostro invito è quello di stendere sceneggiature dettagliate quanto si vuole e poi dimenticarsene, partire all’avventura facendo a meno di troppi ancoraggi. A tratti, a tentoni, tra mille remore, Bispuri riesce infatti a rendere felicemente significante, attraverso l’uso dei prediletti piani-sequenza, il rapporto di questo universo femminile con lo spazio aspro e selvaggio, tra marino e montano, del Supramonte sardo.
I piani-sequenza sono una scelta essenziale, ma Bispuri è anche capace di interromperli sul più bello, lasciando un senso di frustrazione. Lo spazio è cavo, poroso, ricco di fenditure e anfratti labirintici, in cui si può fantasticare di trovare un tesoro, ma in cui è anche possibile scomparire. Nella scena più esplicitamente simbolica del film, Vittoria si infila volontariamente in un buco nero, una fenditura della roccia e scompare. Un suicidio? No. Vittoria ne esce poco dopo, come in una seconda nascita. In effetti, è nata due volte, due volte ha provato l’esperienza del distacco e, se si vuole, questa è la terza. Stavolta, però, il distacco è volontario, dunque simbolico: Vittoria riconquista la padronanza del suo corpo, sarà lei in grado di soccorrere Angelica, con l’aiuto di Tina. Le madri, strette in una nuova solidarietà, sorreggendosi a vicenda, sono guidate dalla figlia, che va avanti, fa strada. «Andiamo!», le incita, lungo un sentiero per il quale non passano più motociclisti a sollevare nuvole di polvere.
Riferimenti bibliografici
C. Arcidiacono, Identità femminile e psicoanalisi. Da donna a donna: alla ricerca del senso di sé, FrancoAngeli, Milano 1996.
J. Butler, Questioni di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Laterza, Roma-Bari 2013.
M. Cacciari, Generare Dio, Il Mulino, Bologna 2017.