Nell’agosto 2018, le cronache palermitane diffondono la notizia di un caso di frodi assicurative che suscita una diffusa indignazione. A destare profondo turbamento nell’opinione pubblica cittadina è lo specifico modus operandi dell’organizzazione criminale che, per ricevere i risarcimenti assicurativi, metteva in scena finti incidenti stradali dopo aver appositamente fratturato gambe e/o braccia di vittime “consenzienti”, adescate nei contesti di marginalità economica e sociale della città.

Spaccaossa (2022), primo lungometraggio di Vincenzo Pirrotta – già regista e attore teatrale – pone preliminarmente il suo autore di fronte a una questione prettamente filmica, quella di vagliare la tenuta etica di un’immagine messa a confronto con un materiale reale che, come scriveva Jacques Rivette, «non [deve] essere affrontat[o] se non nella paura e nel tremore» (Rivette 1961, p. 54).

La sequenza d’apertura di Spaccaossa esordisce con un piano in movimento, stretto su una parete: barre, oggetti e suoni metallici, folte ombre e tinte arancioni. La disorientante inquadratura iniziale sembra evocare un’atmosfera da stanza di tortura medievale che, in una serie di piani successivi, si rivelerà essere il magazzino in cui gli “spaccaossa” eseguono il loro feroce rituale di mutilazione. Un uomo riempie con dei dischi in ghisa da palestra un piccolo trolley, un altro si arrampica su un impalcatura per ricevere la pesante valigia. Ancora due figure, sotto il ponteggio. Uno preme una busta di ghiaccio sul braccio di un altro. Rimosso il rudimentale anestetico, l’arto viene disteso, con un’estremità tenuta ferma su un blocco di pietra. Dall’alto il trolley viene fatto precipitare. L’impatto. Le ossa si spaccano e per un attimo osserviamo il braccio che, come svuotato, si deforma in un movimento fluttuante. L’immagine della sofferenza prende possesso dello schermo, con un primo piano visivo e sonoro che restituisce il volto della vittima dilaniato dal dolore e il suo urlo lancinante. Il grido dell’uomo è ovattato e pare come distendersi in una specie di ralenti del suono che si propaga anche sul successivo totale che chiude la sequenza, dove un livido controluce raggela la scena in una sorta di pulviscolo opaco.

Se è vero, come si affermava nel celebre articolo su Kapò, che «fare un film significa […] mostrare certe cose, e nello stesso tempo, e attraverso la stessa operazione, mostrarle secondo una determinata angolazione» (ivi, p. 55), la prima regia cinematografica di Pirrotta rivela con fermezza un certo posizionamento morale dello sguardo. La terrificante ouverture di Spaccaossa è infatti sottoposta a un evidente processo di stilizzazione formale che, tuttavia, non risponde ad “abiette” ragioni di estetizzazione, bensì alla necessità di conferire a quella indicibile sofferenza una sorta di valore proemiale.

Si tratta di una necessaria introduzione diegetica alla vicenda e, al contempo, di una sorta di investimento “esperienziale” per lo spettatore che non solo è costretto a guardare in faccia l’orrore, ma, attraverso la distorsione visiva e sonora, viene come coinvolto nel medesimo straziante ottundimento percettivo subìto dal personaggio. La messa in scena dell’efferata esecuzione in avvio permette dunque al film di muovere a partire dal fatto di cronaca lasciandosi progressivamente alle spalle il rischio spettacolarizzante di quell’immagine (mediatizzata, riconoscibile e attesa dal pubblico) per rivolgere le proprie attenzioni alle ragioni profonde di una miseria economica e spirituale che sembra riguardare tanto le vittime quanto i carnefici. È dunque del tutto significativo che, nonostante la narrazione chiami in causa direttamente altre due volte il macabro momento dello “spaccamento”, la sua stessa interdizione visiva (come la sua evocazione metaforica: la tritatura del ghiaccio, l’apertura del gesso) pare essere espressamente volta a configurare uno dei principali percorsi discorsivi ed elaborativi del film.

Particolarmente icastica è in tal senso la seconda occorrenza (la rottura della gamba di Mimmo), nel momento in cui la visione di quanto avviene nell’antro del dolore è negata dallo stesso regista-attore che, nel personaggio di Vincenzo, chiude letteralmente in faccia allo spettatore la porta del magazzino. Il significato di questa sequenza acquisisce quindi un decisivo valore in relazione all’apertura di quella immediatamente successiva. L’attacco si realizza ora infatti, in maniera del tutto speculare, attraverso l’apertura di un’altra porta da parte di Vincenzo, in un passaggio diegetico e di montaggio che sussume un più profondo movimento di senso, laddove il gesto di varcare la soglia dell’abitazione in cui il protagonista vive con la madre anziana (di cui lo vediamo ora prendersi cura) segna il passaggio da una dimensione mostruosa e criminale a un orizzonte più umano. Attraverso il personaggio interpretato da se stesso, il regista dimostra di volere innanzitutto descrivere una disperazione che sfugge a sbrigative distinzioni tra buoni e cattivi, tentando di raccontare la complessità di vite in cui ogni anelito di umanità (l’amore di Vincenzo per Luisa come per la cinica madre, le accuse rivoltegli dai soci di essere troppo tenero con le vittime) è destinato a esaurirsi in ragione di una crudeltà pervasiva e sistemica.

In tal senso, pur non essendo un film su Cosa Nostra, Spaccaossa non può che indurre a una riflessione sul fenomeno mafioso, inteso come sfondo sociale e retroterra culturale in cui si muovono i suoi personaggi. Sottraendosi alla retorica criminale del mafia movie, la pellicola rievoca, semmai, i modi di una certa analisi antropologica tipica dell’opera di Daniele Ciprì (qui direttore della fotografia) e Franco Maresco. Accanto a una certa tensione documentaria (il film è per intero recitato in dialetto palermitano) opera in tal senso un evidente lavoro formale che sembra rilanciare la vicenda in direzione di una più generale riflessione sulla marginalità sociale ed esistenziale. Ed è così che, come quella di Cinico TV, anche la Palermo di Pirrotta è un luogo quasi privo di determinazioni geografiche, «lontana da luoghi comuni, priva di elementi troppo riconoscibili» (Morreale 2020, p. 284), dove l’essenzialità della messa in scena «corrisponde a una riduzione dell’umanità ai suoi elementi di base [in] un orizzonte [in cui] pochi personaggi si aggirano come dopo la fine del mondo» (ivi, p. 283).

Sono gli stessi poco noti nomi dei quartieri (Cruillas, Mezzomorreale) a rendere metonimicamente conto, nei discorsi dei personaggi, della presenza della città, così come gli scorci anonimi dei suoi sobborghi non lasciano intravedere alcuna bellezza arabo-normanna. E soprattutto il fulgore mediterraneo del capoluogo siciliano è al contempo sostituito da un algido velo di tenebre che avvolge il film, modellazione quasi espressionista di un universo di degradazione che si rivela essere innanzitutto, diremmo con Deleuze, «mondo originario [che] esiste e opera […] in fondo a un ambiente reale, e ha valore solo in virtù della sua immanenza a tale ambiente di cui rivela la violenza e la crudeltà» (Deleuze 2016, p. 155). Qui, «i personaggi […] compaiono come animali» (ivi, p. 154) (la disgustosa immagine di Fasulina che senza l’aiuto delle mani ingurgita il suo “cuoppo” di frittola) e ogni azione è essenzialmente schiava della pulsione: «atto che lacera, dilania, disarticola» (ivi, p. 159). Pulsione dell’oro, innanzitutto, in un mondo in cui il desiderio di avere (anche a costo di mutilare una parte di sé) coincide precisamente con la possibilità di esistere, e dunque pulsione di morte che sussume ed esaurisce la prima.

Il compimento di tale percorso pulsionale è infatti rappresentato dalla morte di Luisa – che segue la prima, “incidentale”, di Mimmo –, a chiusura di un film che non può e non deve lasciare alcuno spazio al lieto fine. Solo adesso la macchina da presa può librarsi in aria e, abbandonando il corpo esanime della ragazza, lasciarsi alle spalle la stessa finzione, per tornare, sul finale, al mondo. L’ultima immagine del film ci mostra dunque la città di Palermo, ora ben riconoscibile sotto il Monte Pellegrino, prima che le didascalie tornino nuovamente alle pagine di cronaca, a ricordarci – in controcanto allo svilimento elettoralistico della questione della povertà proprio dell’attuale dibattito politico – di una disperazione, spaventosa e invisibile, che pure abita nel profondo il nostro reale.

Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, Einaudi, Torino 2016.
E. Morreale, La mafia immaginaria. Settant’anni di Cosa Nostra al cinema (1949-2019), Donzelli, Roma 2020.
J. Rivette, De l’abjection, in “Cahiers du cinéma”, n. 129, 1961.

Spaccaossa. Regia: Vincenzo Pirrotta; sceneggiatura: Vincenzo Pirrotta, Ignazio Rosato, Salvatore Ficarra; fotografia: Daniele Ciprì; montaggio: Agathe Cauvin; interpreti:  Vincenzo Pirrotta, Selene Caramazza, Aurora Quattrocchi, Antonino Bruschetta, Simona Malato, Luigi Lo Cascio, Maziar Firouzi; produzione: Tramp. Ltd, Rai Cinema; distribuzione: Istituto Luce Cinecittà; origine: Italia; durata: 105′; anno: 2022.

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