A dispetto della gravità del tema, La mafia immaginaria è tra le altre cose un libro divertente. Non nel senso che consente una lettura distesa, qualità pure innegabile, ma nel senso che in molti punti – e in maniera imprevedibile – fa ridere. Ciò accade soprattutto nei momenti in cui Emiliano Morreale, commentando i film, rileva momenti in cui il meccanismo di rappresentazione dell’universo mafioso si inceppa, non per mancanza di elementi tematici riconoscibili, ma per un uso eccessivo degli stessi. Ripetizioni automatiche del già visto e del già sentito (la riproposizione con minime variazioni di nomi di personaggi ispirati a don Calogero Vizzini: don Virzì, don Vizzoni), soluzioni narrative che surriscaldano stilemi consolidati (cassate avvelenate usate per eliminare i nemici, filtri d’amore fabbricati con l’infusione di peli pubici nel caffè), apologie dell’organizzazione criminale ingenuamente esplicite (“Mafioso è il mio cavallo/Mafioso è il mio fucile”, recita una canzone in I mafiosi, 1959, di Roberto Mauri). Non è ironia, che presupporrebbe l’esercizio di una distanza dall’oggetto. È un riso che richiama più la crudeltà scarnificante di Ciprì e Maresco che l’elegia intimistica di Pif, per citare esempi discussi nel volume.
Parlare del cinema di mafia in Italia significa quindi, per Morreale, parlare degli stereotipi che lo innervano, delle convenzioni tematiche, narrative e stilistiche che costituiscono, a partire dai prototipi più influenti (In nome della legge, 1949; Sedotta e abbandonata, 1964; Il giorno della civetta, 1968; La piovra, 1984), sistemi di ricorrenze, aggregabili in repertori dai produttori di immagini e riconoscibili come significanti dagli spettatori. Il mafia movie italiano, questa l’ipotesi operativa, può essere visto come un genere, non tanto perché lo sia organicamente, ma perché l’uso strumentale della categoria permette l’emersione di una serie di costanti persistenti ed efficaci. La ripresa dall’alto, il mercato popolare, la cava, il cantiere, la vedova in pericolo, la donna che spia, la contrapposizione tra vecchia e nuova mafia, l’eroe solitario ed estraneo al mondo narrato, il vecchio capomafia saggio e ieratico (sostanzialmente speculare all’eroe di cui sopra): questi e altri ingredienti della formula sono dotati di inerzia inconsueta in un cinema solitamente segnato da cicli di sfruttamento frenetici, come è quello italiano.
La ricognizione di Morreale conferma un dato che emerge spesso dagli studi che tentano di applicare lo studio dei generi cinematografici al contesto italiano. Se il mafia movie è un genere non lo è in purezza (tranne che nei suoi esemplari minori e infimi), ma nelle sue versioni già modulate, o aggettivate per dirla con Altman di Film/Genre: come portainnesti capace di ricevere le suggestioni del cinema coevo, o al contrario come elemento in grado di vivificare altre immaginazioni di genere. La commedia, il film politico, il melò televisivo, ma anche gli esperimenti d’autore sensibili alla Nouvelle Vague (si pensi a Un uomo da bruciare, 1962, dei fratelli Taviani e Valentino Orsini) accolgono agevolmente temi e figure del mafia movie. E allo stesso tempo il racconto della mafia si consolida proprio in relazione ad altri generi o filoni del nostro cinema: il “western” degli anni cinquanta, la commedia di ambientazione siciliana da Germi a Samperi, il poliziesco e il film d’impegno civile degli anni settanta.
La griglia del genere consente l’emersione di un numero sterminato di titoli, disseminati lungo sette decenni e del tutto eterogenei in termini di valori produttivi ed estetici. Il riferimento qui è per certi versi un lavoro precedente dello stesso Morreale, l’esaustivo Così piangevano (2011), dedicato al melodramma postbellico. L’esempio è visibile soprattutto nell’intenzione di fare luce su una produzione che, come la lettera rubata, è sotto gli occhi di tutti, ma che per diversi motivi (la quantità cui accennavo, ma anche – e non da ultimo – l’irredimibile bruttezza di alcuni di questi oggetti) studiosi e cinefili affrontano con fatica. Qui, come nel volume precedente, Morreale non discrimina questi film dal punto di vista estetico, ma cerca dei criteri capaci di descriverli e interpretarli.
Gli strumenti di indagine usati per questo scopo sono altrettanto eterogenei: l’autore ricorre alla teoria dei generi, alla storia contemporanea e alla sociologia che si sono occupate del fenomeno mafioso, alla critica e alla memorialistica. L’esito non può essere sempre uniforme. L’impianto del volume, che segue piuttosto fedelmente una linearità cronologica, favorisce gli affondi e le associazioni interpretative tra testi e oggetti appartenenti ad ambiti diversi della produzione culturale dedicata alla mafia (narrativa, cronaca, saggi storici, pamphlet politici, e ovviamente film per il cinema e la tv). Più ci si avvicina al presente, meno folto e ramificato appare il reticolo di riferimenti, e di discorsi implicitamente in dialogo tra loro, cui Morreale può applicare la propria finezza di interprete.
Il quadro che emerge è apparentemente contraddittorio, ma in realtà coerente nell’evidenziare la funzione complessa di questo cinema (e di questa televisione). Da un lato il mafia movie italiano è autoreferenziale e, come abbiamo visto, impegnato a elaborare infinite variazioni di un immaginario relativamente stabile. Come spesso accade al cinema che ingaggia un rapporto dinamico con la storia, mette in scena un oggetto (la mafia) per parlare d’altro e rendere visibili – nel senso di Sorlin – processi di altro tipo (i cambiamenti nei rapporti tra i generi, il dibattito politico, lo sviluppo economico). D’altro canto l’orizzonte di comprensione di Morreale è interdiscorsivo, se non intermediale: il film di mafia (o con la mafia dentro) è un atto di presa di parola in mezzo ad altri discorsi che affrontano le stesse questioni su piattaforme e arene comunicative diverse.
Come osserva l’autore, è difficile oggi comprendere l’eco suscitata da Johnny Stecchino (Benigni, 1991) se non si considera la fase storica in cui il film esce, caratterizzata dalla maratona antimafia Rai-Fininvest, con la messa in onda coordinata di Samarcanda di Michele Santoro e del Maurizio Costanzo Show in seguito all’omicidio di Libero Grassi. Allo stesso tempo, potremmo aggiungere, il raffreddamento in chiave antropologica di Salvatore Giuliano (Rosi, 1961), con la sua ricerca di realismo attraverso l’indagine sul campo e il confronto con gli attori sociali coinvolti, si legge in parallelo con quanto sperimentato da De Seta (non solo a livello del testo, ma soprattutto a livello produttivo) in Banditi a Orgosolo (1961). Fughe in avanti e momenti di pesante inerzia: Morreale nota ad esempio come negli anni ottanta, quando la televisione inizia a raccontare in modo più puntuale la mafia attraverso i suoi propri codici di genere (si pensi alla trasmissione epocale del maxiprocesso), il mafia movie si attardi nell’uso di stereotipi esauriti.
Ancora più a fondo, oltre il livello delle figure e delle narrazioni, è però una sorta di epistemologia della rappresentazione a essere quasi inscalfibile: la concezione della mafia come espressione del sottosviluppo già formulata da Michele Pantaleone in Mafia e politica, l’idea della Sicilia come luogo di amplificazione e rivelazione della vita nazionale, «[l]aboratorio (man mano più metafisico) dei mali d’Italia» (Morreale 2020, p. 12) e, sopra ogni cosa, l’immagine gattopardiana dell’isola come realtà impermeabile alla Storia e al cambiamento. Il sistema di stereotipi che ha costituito l’immaginazione della mafia negli ultimi settant’anni non si regge senza questa visione mitica e arcaizzante; allo stesso tempo il filtro della mafia e delle immagini ad essa correlate intensifica l’adesione eccessiva dell’isola al suo luogo comune, l’idea che «[l]a Sicilia è esattamente così come uno se la immagina; anzi, è ancor più così» (ivi, p. 76). Sulle incrostazioni di questo sistema di credenze, che ha costituito l’oggetto di polemica di tanti intellettuali siciliani (su tutti la straordinaria Giuliana Saladino di Terra di rapina, 1972), Morreale costruisce un lavoro che è, forse, ancora più che un libro sulla mafia, un libro sulla Sicilia.
Riferimenti bibliografici
R. Altman, Film/Genre, BFI, London 1999.
A. Floris, Banditi a Orgosolo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2019.
E. Morreale, Così piangevano. Il cinema melò nell’Italia degli anni cinquanta, Donzelli, Torino 2011.
G. Saladino, Terra di rapina, Sellerio, Palermo 1972.
Emiliano Morreale, La mafia immaginaria. Settant’anni di Cosa Nostra al cinema, Donzelli, Roma 2020.