Soul è l’ennesimo film della Pixar che conferma come le opere di questo studio siano capaci di pensare il mondo e il cinema come due aspetti quanto mai interrelati. In questo senso quell’anima a cui, sin dal titolo, è dedicata l’ultima prova firmata da Pete Docter (affiancato qui da Kemp Powers) non può non chiamare in causa la stessa  animazione. Si può anzi arrivare ad affermare che Soul sia prima di tutto il film in cui la Pixar esplicita quel discorso su tale forma di espressione, sui suoi meccanismi interni, sulle sue peculiarità e sulla sua essenza che in fondo, fin dal primo Toy Story (1995), essa ha istituito e coerentemente portato avanti come nessun altro studio ha fatto negli ultimi anni. È soprattutto in questo senso che Soul può essere imparentato, come molti osservatori hanno già messo in evidenza, al precedente Inside Out. Opera a sua volta pienamente autoriflessiva nella quale Docter metteva a nudo i meccanismi che regolano il funzionamento della stessa industria dell’intrattenimento, il cui potenziale per definizione è legato alla sua capacità di trarre profitti dalle emozioni suscitate nel pubblico.

L’alveo all’interno del quale nel film del 2015 si inscriveva tale indagine era quello di una riflessione riguardante i fondamenti della personalità dell’individuo. Stessa materia drammaturgica che struttura la narrazione di Soul dove, “semplicemente”, la domanda sul “chi siamo” (e di conseguenza sul “dove andiamo”) si sposta a monte. È infatti l’Ante-Mondo uno dei principali spazi d’ambientazione del film in quanto luogo in cui le nuove anime sviluppano personalità e propensioni prima di andare sulla Terra e nel quale, dopo essere finito in coma a seguito della caduta in un tombino di New York, si rifugia il jazzista Joe Gardner (primo protagonista afroamericano dell’universo pixariano) che, un po’ come l’altro Joe de Il paradiso può attendere (1978), si rifiuta di essere risucchiato nell’Altro Mondo e quindi di morire. L’Ante-Mondo è un luogo non dissimile dal cervello della Riley di Inside Out, ossia uno spazio fantastico dove le potenzialità creative dell’animazione possono espletarsi all’ennesima potenza. Ecco allora riproporsi in Soul un mondo di colori e di forme che sembra una continuazione di quello del precedente di Docter ma che in fondo, vista la materia trattata, dovrebbe essere considerato quello di un prequel.

Se dunque l’Ante-Mondo viene prima di tutto – non solo prima dell’incarnazione terrena del musicista protagonista del film, ma anche della ragazzina di Inside Out e delle sue emozioni – allora il modo in cui esso viene rappresentato non può che costituire una radicalizzazione estetica e figurativa delle scelte sottostanti alla realizzazione degli “ambienti mentali” in cui avevano luogo le vicende dell’opera del 2015. È lo stesso Ante-Mondo dell’animazione che, così, Docter decide di mettere in scena configurandone il grado zero, quello della linea pura mirata a raggiungere un’intensità emozionale del tutto particolare, soprattutto in relazione dialettica con il Mondo e la Realtà, resi al contrario mediante la sofisticazione del fotorealismo più spinto.

Paradigmatica in tal senso, all’inizio di Soul, è una scena chiave che nuovamente richiama un passaggio altrettanto cruciale di Inside Out: quella in cui l’anima di Joe precipita verso l’Ante Mondo attraversando varie dimensioni che lo conducono per qualche attimo a diventare un infantile disegno bidimensionale, un po’ come succedeva a Gioia, Tristezza e Bing Bong nella zona del Pensiero Astratto della mente di Riley dove tali figure diventavano completamente incorporee. A proposito di quest’ultima scena qualcuno ha parlato a suo tempo di «collisione tra l’estetica della Computer Graphic e quella dell’LSD» (Romney 2015, p. 22). Forse lo stesso si può dire per il viaggio compiuto dall’anima del protagonista di Soul che in tal senso farebbe pensare ad altri lisergici trapassi, primo fra tutti quello del Bowman di 2001: Odissea nello spazio (1968) di Stanley Kubrick (le varie animelle infantili che affollano l’Ante Mondo del film Pixar, in questa prospettiva, potrebbero avere qualcosa in comune con lo “Star-Child” kubrickiano che, proprio come loro, scrutava la Terra da un’altra dimensione).

Sta di fatto che, dovendo trovare la chiave estetica per affrontare un tema così impegnativo, lo studio californiano sceglie la via della semplificazione complessa già preannunciata in Inside Out, quella appunto in cui l’approdo all’essenzialità è il risultato di una costante messa in questione delle forme e degli stili. Il viaggio a ritroso attraverso la storia dell’arte novecentesca (dall’iperrealismo a Kandinskij, Miró e Picasso) e contemporaneamente dello stesso cinema d’animazione (dalla tridimensionalità fotorealista della computer grafica alla bidimensionalità astratta delle prime sperimentazioni) che fulmineamente veniva proposto nella suddetta scena del film del 2015 ambientata nel Pensiero Astratto approda ora su un terreno in cui tutti questi elementi trovano, anche in questo caso, una radicalizzazione. Basti pensare ai Jerry, i consulenti delle anime rappresentati sotto forma di ghirigori picassiani che, come nel caso del contabile Terry, finiscono per evocare anche la famosa Linea (1971) di Osvaldo Cavandoli.

Da questo punto di vista, in sintonia con tutta “una certa tendenza” del cartoon contemporaneo (per tutti, si vedano gli emblematici casi di Spider-Man. Un nuovo universo, 2018, di Bob Persichetti, Peter Ramsey, Rodney Rothman e di Klaus. I segreti del Natale, 2019, di Sergio Pablos), l’alchimia perseguita in Soul è quella consistente nel far convivere passato e presente dell’animazione, portando a pieno compimento l’intuizione di John Lasseter da cui, a metà degli anni ’80, è nata la stessa Pixar: quella di innestare l’animazione bidimensionale tradizionale su quella tridimensionale computerizzata.

È in questo modo così radicalmente sperimentale che, ancora una volta, il “viaggio dell’eroe” può compiersi mettendo in atto una fuoriuscita dal mondo ordinario che qui quanto mai riguarda forma e contenuto. Da un lato ecco allora la costante e produttiva dialettica tra l’anima anarchica e antinormativa e quella disciplinata e tradizionale dell’animazione contemporanea. Ovvero tra una computer grafica magmatica e malleabile che diventa il fuoco di cui parlava Ejzenštejn con riferimento alla produzione disneyana, cioè «forza onnipotente per la creazione di immagini e di forme» (Ejzenštejn 2004, p. 36), e la medesima tecnologia impiegata però nella direzione di una resa fotorealistica degli ambienti e di un naturalismo dei movimenti dei personaggi senza pari.

Dall’altro lato c’è il piano narrativo (invero più debole e meno controllato) su cui si attua la canonica ricerca dell’identità e della compiutezza da parte del protagonista, con tutto l’archetipico bagaglio vogleriano (Vogler 1992) del caso (dai Mentori ai Guardiani della soglia, dallo Shapeshifter al Trickster), compreso il fondamentale Elisir: la foglia caduta da un albero che, come succedeva nella scena del sacchetto danzante nel vento di American Beauty (1999), Joe impara a prendere a simbolo della bellezza delle piccole cose grazie a “22”, l’anima incontrata nell’Ante Mondo in cui si condensa una sorta di versione cinica di Tristezza di Inside Out.

A cercare di tenere insieme organicamente questa molteplicità di livelli è la musica, come già in Coco (2017) vero daimon del protagonista. Il fatto che qui essa sia proprio il jazz conferma la non inedita associazione tra questo genere musicale e la dimensione dell’Aldilà evidenziata dagli studi di Walter van de Leur (2017) ma anche, sul grande schermo, da un cult come All That Jazz (1979), in cui il personaggio interpretato da Roy Scheider pure si chiamava Joe.

Nella sua sfida di rappresentare l’irrappresentabile, nel tentativo di tenere in equilibrio tutte le parti in gioco, sulla scorta di Inside Out – con cui condivide fondamentalmente l’urgenza di essere nel contempo film d’avanguardia e blockbuster – Soul si configura dunque come l’opera più sperimentale della Pixar, a patto però che tale termine sia considerato in tutte le sue implicazioni. Anche quelle che rimandano a una dimensione di fondamentale incompiutezza e imperfezione.

Riferimenti bibliografici
S.M. Ejzenštejn, Walt Disney, SE, Milano 2004.
J. Romney, Tales of Ordinary Sadness, in “Sight & Sound”, vol. 25, n. 8, 2015.
C. Vogler, Il viaggio dell’eroe, Dino Audino, Roma 1992.
W. van de Leur, Swinging in heaven, boppin’ in hell. Jazz and death, in H. Dell, H. M. Hickey, Singing Death. Reflections on Music and Mortality, Routledge, London and New York 2017.

Soul. Regia: Pete Docter, Kemp Powers; sceneggiatura: Pete Docter, Kemp Powers, Mike Jones; fotografia: Matt Aspbury, Ian Megibben; montaggio: Kevin Nolting; musiche: Trent Reznor, Atticus Ross; interpreti: Jamie Fox, Tina Fey, Questlove, Phylicia Rashad, Daveed Digs, Angela Bassett, Graham Norton, Rachel House, Richard Ayoade, Alice Braga, Wes Studi; produzione: Pixar Animation Studios, Walt Disney Pictures; distribuzione: Walt Disney Studios Motion Pictures; origine: Stati Uniti d’America; durata: 101’.

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