Coco è l’ennesima prova di come la Pixar rappresenti oggi una delle industrie creative maggiormente capaci di realizzare prodotti stratificati in cui la dimensione dell’entertainment convive in maniera del tutto pacifica e armoniosa con quella dell’autoriflessività, il piacere della narrazione con la costante sollecitazione di cruciali questioni teoriche.

Il film diretto da Lee Unkrich con Adrian Molina conferma quanto lo studio di Emeryville radichi le proprie narrazioni in una tradizione disneyana il cui influsso è sicuramente cresciuto negli ultimi anni, specialmente dopo l’acquisizione del 2006 da parte della compagnia di Burbank. Non è un caso, da questo punto di vista, che in Coco acquisisca una funzione particolarmente nevralgica quell’istituzione famigliare – interpretata nella sua accezione più classica, ossia biologica e nucleare – tanto cara al canone disneyano e già al centro, pur in una versione per definizione fuori dagli standard, di un precedente pixariano come Gli incredibili. Una “normale” famiglia di supereroi (Bird, 2004).

In Coco tuttavia l’enfasi è posta sul significato più profondo e più ampio di famiglia intesa in quanto stirpe, ossia discendenza fondata su solidi e duraturi legami di sangue. È in questo contesto che si radica l’ennesimo viaggio dell’eroe compiuto alla riscoperta delle proprie origini. Il dantesco itinerario nella terra dei defunti alla ricerca degli antenati compiuto dal dodicenne Miguel in occasione del “Día de los Muertos” è, in tal senso, l’eloquente riaffermazione del paradigma identitario pixariano secondo cui solo entrando in contatto con le proprie radici (biografiche, storiche e culturali) è possibile prepararsi ad affrontare il futuro e quindi crescere, come individui ma anche come popolo.

L’ossessione genealogica, in effetti, rappresenta da sempre una delle costanti dell’universo narrativo e dell’immaginario dello studio d’animazione californiano, tra i cui fondatori appare del resto un mormone come Ed Catmull (attualmente presidente sia dei Pixar che dei Disney Animation Studios), l’esponente cioè di una religione profondamente basata sull’impiego e la valorizzazione della genealogia quale strumento che rende possibile il “battesimo postumo”, ovvero il conferimento della grazia e della salvazione ai propri antenati anche dopo la morte.

Se tale aspetto fino ad ora risultava intimamente connesso a un “discorso” sull’identità nazionale americana, che la Pixar si è incessantemente sforzata di recuperare e rifondare a livello di un immaginario di massa a partire dai suoi tòpoi più profondi, la novità è che adesso questo processo si allarga dal punto di vista geoculturale, collocandosi in un contesto nuovo e altro come quello, del tutto particolare, del Messico. In un momento di riaccensione delle tensioni razziali quale quello attraversato dalla “nuova” America di Donald Trump (per la verità mai di fatto sopite nemmeno sotto le precedenti amministrazioni), una scelta simile (benché comunque risalente a un periodo antecedente alla discesa nella competizione elettorale del tycoon newyorkese) si è fatalmente caricata di un preciso significato simbolico. In tale prospettiva quella «lettera d’amore per il Messico» con cui il regista Unkrich ha definito pubblicamente la sua opera in un tweet del 6 dicembre del 2016, a poche settimane dalla vittoria delle elezioni da parte di Trump, ha inevitabilmente assunto una valenza eminentemente politica.

In alternativa all’ottica conservatrice apertamente antiglobalizzazione e al neopatriottismo nazionalista del presidente USA si impone insomma con Coco l’idea, tutta pixariana, di riconfigurare una nuova dimensione dell’identità nazionale americana nei termini di ciò che Frederick Buell definisce “postnazionalismo nazionalista”, cioè una nuova grande narrazione capace di «fondere le posizioni nazionaliste conservatrici con quelle radicali postnazionali in un nuovo tipo di nazionalismo dell’era globale» (Buell, p. 553). Il fatto che Coco abbia ottenuto ottimi risultati al botteghino in tutto il mondo e che risulti il maggiore incasso nella storia del cinema messicano attesta pienamente la validità di questo progetto culturale, economico e politico.

Approfondendo e ampliando ulteriormente la questione identitaria, tale opera torna a porre al centro dell’attenzione anche il tema della memoria (altro filo rosso che percorre tutta la filmografia pixariana) mettendolo direttamente in relazione, da una parte, con l’argomento tabù della morte e, dall’altra, con una riflessione teorica sul potere delle immagini, fisse e in movimento, nell’epoca della loro riproducibilità tecnica. Proprio in questo connubio tra i peculiari argomenti trattati e la dimensione autoriflessiva risiede la vera novità del film di Unkrich e Molina, anche rispetto a un recente precedente come Il libro della vita (2014) di Jorge R. Gutierrez, prodotto da Guillermo Del Toro e ambientato nel medesimo contesto del “Día de los Muertos”.

In Coco la direttrice metalinguistica si incarna prima di tutto nel valore che l’animazione stessa vi assume sul piano tecnico e creativo, consentendo agli autori di ritrovare quella libertà espressiva e quella carica sperimentale che avevano già contraddistinto un precedente, per certi aspetti analogo, come Inside Out (Docter, del Carmen, 2015). Se lì era possibile, anzi necessario, sbizzarrirsi nella rappresentazione delle emozioni che abitano la mente umana, in Coco l’animazione sfoga tutte le sue potenzialità “antinormative” nel dare letteralmente vita ai morti, cioè agli scheletri che vivono nell’aldilà, esseri per definizione spogliati di carne e muscoli e pertanto snodabili e scomponibili (un precedente celebre in tal senso è la disneyana Danza degli scheletri del 1929).

Su un fronte complementare, come si diceva, l’attenzione degli autori si appunta sullo statuto delle immagini indagandone la particolare valenza cultuale connessa alla dimensione della memoria. Ecco allora, in primo luogo, che in Coco le fotografie dei defunti nella loro condizione mondana vengono feticisticamente enfatizzate in quanto oggetti che, esposti nelle ofrendas nel “Giorno dei Morti”, rendono possibile il ricordo da parte dei vivi.

Restare “in vita” nell’aldilà dipende insomma anche da questo, altrimenti si fa la fine di Chicharrón, il cui scheletro, in una delle scene più forti e drammatiche del film, un po’ come succedeva al personaggio di Bing Bong in Inside Out, si polverizza svanendo nel nulla. È la stessa sorte cui andrà incontro Héctor (l’accattivante deuteragonista del film) se non provvederà affinché, nel mondo terreno, qualcuno continui a custodire il suo ricordo anche per il tramite di un’immagine fotografica.

Investendo la fotografia di un tale ruolo vitale, Coco ne mette a nudo l’essenza, quella di un’immagine il cui referente è letteralmente lo Spectrum di cui parlava Roland Barthes, ossia quella dimensione che etimologicamente «mantiene un rapporto con lo “spettacolo” aggiungendovi quella cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno del morto» (Barthes, p. 11).

Il valore cultuale della foto legato al memento della persona si trasforma d’altro canto in vero e proprio culto della personalità quando quelle immagini assumono il movimento e dunque si fanno cinema. È il caso dei frammenti di film interpretati in vita dal cantante-attore Ernesto de la Cruz che nella “terra delle anime” scorrono incessantemente, come in una videoinstallazione, su una serie di schermi nella gigantesca casa-mausoleo del divo, offrendosi come oggetti in cui sembra realizzarsi un’ideale, quanto mortuaria, sintesi tra “valore espositivo” e “valore cultuale” delle immagini.

Miguel conosce a memoria quelle pellicole con cui, come già accaduto per altri personaggi della Pixar, è cresciuto nutrendosene con feticistica passione. In questo senso Ernesto de la Cruz è l’ultimo di quella serie di eroi che nelle precedenti opere agivano su schermi grandi e piccoli assurgendo a veri e propri oggetti del desiderio e modelli comportamentali: dal Gusteau di Ratatouille (Bird, Pinkava, 2007) al Muntz di Up (Docter, Peterson, 2009) fino ai protagonisti di un musical d’antan come Hello, Dolly!  (Kelly, 1969) in WALL•E (Stanton, 2008). Nella loro natura di divistiche icone simulacrali questi ultimi, al pari di de la Cruz, si davano già come spettri dotati di uno statuto auratico rafforzato dall’arcaicità dei dispositivi tecnologici che li producevano e che in Coco ritornano tutti insieme in gioco: dalla cassetta VHS (come quella di Hello, Dolly! in WALL•E) da cui Miguel, epifanicamente, fa apparire su un vecchio televisore per la prima volta le immagini di de la Cruz alle telecamere anni ’50 in azione durante il suo show nella terra dei morti, fino alle stesse schegge in bianco e nero delle sue gesta filmiche proiettate come vere e proprie opere d’arte nella sua dimora-museo eretta per celebrarne i fasti.

Queste ultime forniranno al bambino, e con lui agli spettatori, la chiave per risalire alla vera personalità di de la Cruz contribuendo alla ricostituzione del collage identitario in cui si colloca lo stesso Héctor e nel quale risiede l’origine della famiglia di Miguel.

L’esempio di Coco dimostra dunque come le immagini, di qualsiasi natura esse siano, rivendichino una volta di più la propria centralità nell’universo pixariano, offrendosi quali oggetti capaci di veicolare una continua interrogazione sull’animazione come concetto e pratica spettacolare, ma anche come essenza stessa del cinema. Più in generale, quale vera e propria «logica dominante delle immagini in movimento» (Lamarre, p. 36).

Riferimenti bibliografici
R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 2003.
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2000.
F. Buell, Nationalist Postnationalism: Globalist Discourse in Contemporary American Culture, in “American Quarterly”, vol. 50, n. 3. 1998.
T. Lamarre, The Anime Machine: A Media Theory of Animation, University of Minnesota Press, Minneapolis 2009.

Tags     Coco, memoria, Pixar
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