Il 15 maggio 1968 il Teatro Odéon, nel VI arrondissement di Parigi, è occupato. Per circa un mese, studenti, casalinghe, operai, intellettuali discuteranno animatamente sui rapporti intergenerazionali, sulla selezione delle classi dirigenti, sui rapporti sociali. Il Living Theatre partecipa alle assemblee, mentre sta lavorando al suo spettacolo più emblematico, Paradise now, con il quale vuole superare definitivamente il teatro “borghese”, dando vita a una specie di happening nel quale lo spettatore sia chiamato a interagire attivamente. Paradise now si pensa come un viaggio ascensionale verso il cielo in otto gradini, secondo rituali di evidente ispirazione religiosa (il chassidismo, i Ching), che conducano lo spettatore alla liberazione dalle forze repressive e a una rivoluzione permanente, passando a ogni gradino dal rito alla visione e infine all’azione, così da spingere la rappresentazione verso la piazza, verso il teatro di strada. Poche settimane dopo, in una via non troppo lontana dal Teatro Odéon, al numero 31 di rue de l’Échaudé, nel quartiere di Saint-Germain-de-Près, Robert Bresson gira gli interni di Così bella, così dolce (Une femme douce), che uscirà sugli schermi francesi l’anno successivo. Niente, più dell’austerità bressoniana, sembrerebbe lontano dallo scatenamento delle istanze libertarie del Maggio francese.
Il film è un adattamento del racconto La mite. Racconto fantastico, una delle opere più compiute e sconvolgenti di Dostoevskij (2018), di cui Serena Vitale ha da poco curato una nuova traduzione in italiano per Adelphi. Dostoevskij, sconvolto da alcuni casi di suicidio, in particolare da quello della giovanissima Marija Borisova, una sarta lanciatasi dalla finestra tenendo tra le braccia un’icona, pubblica per la prima volta il racconto all’interno del suo Diario di uno scrittore nel novembre 1876. Come interpretare un atto di rivolta mite? Dostoevskij prova a corrispondere a tale domanda, abbandonando la forma pubblicistica che per lo più caratterizzava il Diario di uno scrittore e immagina di poter stenografare i pensieri più intimi di un marito di fronte al cadavere della moglie suicida, stesa sulla tavola di legno in mezzo alla sala, dove secondo l’usanza russa il cadavere è lavato e rivestito, prima di essere messo nella bara. Il marito ripercorre in un andirivieni convulso di pensieri, accessi d’ira e lamentazioni, l’attrazione per quella giovane ragazza, conosciuta al banco dei pegni da lui gestito e che nella fantasia dostoevskiana concluderà la sua esistenza al modo di Marija Borisova.
Un monologo che, nella scrittura nervosa di Dostoevskij, fatta di continue ripetizioni, interruzioni, esitazioni, iperboli, espressioni colloquiali, scarti linguistici, si fa parola dialogica, ma di un dialogismo in cui l’altro è continuamente invocato e al contempo fuggito. Una sorta di cattiva infinità della parola dialogica, per cui il monologante teme continuamente che gli altri credano che egli tema la loro opinione, come ci ha spiegato Bachtin (1968). Ostilità verso l’altro e assoluta dipendenza: da qui una parola circospetta, che si lascia sempre aperta una scappatoia, ossia il rovesciamento di quello appena detto, e che Bresson traduce visivamente in uno spazio sconnesso, fatto di falsi raccordi, di immagini decentrate, di dettagli apparentemente insignificanti e gesti isolati, di un uso insistito del fuoricampo e di stacchi netti, a volte bruschi, che isolano le inquadrature.
Il marito della mite è una evidente ripresa, già nel fatto di essere un senza nome, dell’uomo del sottosuolo, ossia dell’uomo del risentimento plebeo, che cerca nell’isolamento il riconoscimento. Questi senza nome cercano di essere individui attraverso il disgusto che provano verso di sé, verso quell’impasto di pulsioni e sentimenti inconfessabili, ma tale “sincerità” è ciò di cui vanno però più intimamente orgogliosi. Gli altri li soffocano, e per questo si nascondono, cercano un’esistenza clandestina, “sotto il pavimento” (altre traduzioni possibili di podpol’e), ma al contempo bramano il riconoscimento altrui. La rivolta del senza nome è mossa da un desiderio mimetico frustrato: il suo voler essere individuo è voler essere “come tutti gli altri”, che però disprezza, in quanto li considera a lui inferiori per cultura e sensibilità. Nelle Memorie, “gli altri” era un arrogante ufficiale che non aveva ceduto il passo sulla prospettiva Nevskij all’uomo del sottosuolo. Ne La Mite, è l’ufficale ex-compagno, che ricorda al marito la sua uscita disonorevole dal reggimento e che tenta di sedurre la mite (krotkaja: mansueta, umile, paziente).
La dialettica tra il ribelle orgoglioso e la mite, già esplorata da Dostoevskij in altre opere, raggiunge ne La Mite un punto di incadescenza massima. Da una parte, il marito della mite spoglia di qualsivoglia aurea romantica il modello dell’uomo del sottosuolo: la cattiva infinità da anima bella, che si pretende eccezionale e rimane compiaciuta nella propria sostanziale inazione, approda con lui alla riconosciuta mediocrità, all’esistenza piccolo-borghese di un proprietario di un banco di pegni, ancora più evidente nel film bressoniano, che si carica di un secolo di interpretazioni dostoevskiane in terra francese, profondamente influenzate dalla chiave apocalittico-esistenzialista di Berdjaev, fatta propria anche da autori come Camus. La rivolta narcisistica si risolve nell’affermazione di ciò che si voleva negare, identificando il benessere nel proprio utile. L’amore verso l’altro non potrà essere che desiderio di essere finalmente riconosciuto, attraverso l’umiliazione e l’asservimento.
«Sono una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene» (Faust, Parte I), così si definisce secondo le parole di Mefistofele l’uomo del banco dei pegni. Parole quantomai indicative, difatti sottolineate da Bresson, ma che si caricano di ulteriore significato, se pensiamo che Marx nei Manoscritti economico-filosofici proprio attraverso la relazione tra Faust e Mefistofele aveva indagato alcuni aspetti dello spirito del capitalismo. Il nichilismo della rivolta perpetua si esprime compiutamente nel denaro, nello strumento che tutto riduce all’equivalenza, tutto riduce a merce di scambio e a calcolo dell’utile. Ma come riconosciamo la destinazione borghese-nichilistica dell’uomo del sottosuolo, al contempo possiamo così intendere alla base il “desiderio mimetico” dei senza nome, desiderio che ne struttura l’universo calcolante.
La mite ne è davvero l’alternativa? In Delitto e castigo, e in Pickpocket (Bresson, 1959), quel modello d’esistenza era la grazia, in grado di far uscire dall’isolamento, dalla “prigione del quotidiano”, il ribelle nichilista. Ne La Mite, e in modo ancora più evidente in Così bella, più che il contraccolpo, sembra essere assorbita dalla logica del sottosuolo, capace di affermarsi soltanto attraverso la negazione: non il dono, ma il rifiuto di sé. O la speranza di quella grazia deve passare attraverso il suicidio, atto di fuoriuscita da questo mondo, unico in grado di rompere il cattivo infinito del sottosuolo, in grado di attestare con il nero di quella bara chiusa un’alterità assoluta, non scalfibile da nessuna parola o immagine? O, ipotesi ancora più inquietante, la mitezza si rivela anch’essa una forma di orgoglio, esibisce una volontà di potenza speculare a quella del sottosuolo?
Bresson, in modo pressoché didascalico, mostra la mite condurre il marito in tanti luoghi deputati dell’industria culturale, dal cinema ai musei al teatro. Dietro le sue prese di posizione, non c’è più il personaggio dostoevskiano, ma lo stesso Bresson, che abbraccia il radicalismo della pittura d’avanguardia e disdegna la recitazione enfatica durante una rappresentazione dell’Amleto, richiamando le parole stesse del dramma di Shakespeare: «Dite le vostre battute a fior di labbra, come ve le ho recitate io, se le urlate come fanno tanti nostri attori, preferirei affidare i miei testi a un banditore». Ma, al di là dell’afflato umanistico, la mite, scambiando il proprio crocefisso in oro con il denaro al banco di pegni, è stata comunque assorbita dalla logica che riduce tutto a merce: anche la vita spirituale, ridotta a oggettualità, a luoghi e beni da godere passivamente. Quegli oggetti non sono più il prolungamento dell’agire in vista della grazia, come ai tempi di Un condannato a morte è fuggito (Bresson, 1956) e Pickpocket, ma sono realtà inerti, da annotare sul registro di un banco di pegni.
Dostoevskij attraverso i suoi ribelli di Dio interrogava quella generazione russa nichilista che, a partire dagli anni sessanta, aveva affermato una rottura radicale con i propri padri. Bresson, riaccostandosi a questo racconto, si trova in una temperie spirituale simile, quella appunto della rottura generale del Sessantotto. Nel chiuso di un dramma da camera, ha concentrato la dimensione patologica delle relazioni, non solo amorose, in cerca, come i giovani occupanti dell’Odéon, di una liberazione, che per Bresson non può però dimenticare lo scandalo della sofferenza della vittima innocente. La testimonianza della sofferenza inutile impedisce l’illusione di qualsivoglia forma di pace ora, proprio perché la libertà, di cui l’atto di rivolta è l’espressione più icastica, per essere tale, deve conservare in sé la possibilità del male. Questa la verità di Dostoevskij, al di là di riduzioni di stampo hegeliano sulla naturale destinazione razionale della forza di liberazione. Il senso di comunità Bresson lo cerca allora nel conforto della vecchia governante Anna, che senza proferire parola ma con sguardo partecipe assiste i due giovani, e poi veglia il cadavere: non cerca di ridurre l’esistenza di quella giovane mite a spiegazioni razionali, a logiche causali che alla fine discendono dai propri criteri d’utilità. Anna riconosce il mistero della mite, come è proprio in fondo di ogni singola esistenza. Le rivoluzioni si fanno in silenzio.
Riferimenti bibliografici
F. Bono, L. Cimmino, G. Pangaro, a cura di, Così bella, così dolce. Dalle pagine di Dostoevskij al film di Bresson, Rubbettino, Catanzaro 2012.
M. Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, Einaudi, Torino 1968.
R. De Gaetano, Robert Bresson: il paradosso del cinema, Bulzoni, Roma 1998.
R. Girard, La voce inascoltata della realtà, Adelphi, Milano 2006.
F. Dostoevskij, La mite. Racconto fantastico, a cura di Serena Vitale, Adelphi, Milano 2018.