L’arco narrativo di Sorry We Missed You copre i pochi mesi in cui una famiglia si disgrega a causa di un nuovo impiego che assorbe tutte le energie e il tempo umano, restituendo soltanto ansia, rischio, frustrazione. Il lavoro è quello del padre di due figli, un ragazzo adolescente e una bambina, e marito di un’infermiera: dopo decenni di lavori poco stabili in vari settori, l’uomo abbocca alla proposta di un’azienda privata di posta celere che non ha dipendenti ma collaboratori, lavoratori autonomi pagati per le consegne giornaliere. In breve tempo si ritrova ad assumersi i rischi di un lavoro estenuante e senza diritti, regolamentato dai famigerati zero-hour contracts, ma tiene duro per tentare di accumulare le risorse per accendere un mutuo e acquistare una casa di proprietà.
Il ventisettesimo film di Ken Loach nasce durante la lavorazione del precedente, Io, Daniel Blake (2016), girato nella stessa area di Newcastle upon Tyne, nel nord-est dell’Inghilterra. Dall’osservazione delle condizioni di lavoro dei corrieri nasce la consueta opera di documentazione dello sceneggiatore Paul Laverty, che ricostruisce i meccanismi della cosiddetta gig economy, in italiano “economia dei lavoretti”: un sottobosco di neo-precariato al servizio delle piattaforme di consegna a domicilio e di altri lavori a chiamata. Non si tratta delle problematiche di un solo segmento produttivo in un solo paese, ma di una fase storica il cui carattere globale, secondo il sociologo Stefano Cristante, è stato il concetto-chiave di low cost, l’orizzonte chiuso del consumo e del lavoro: «Low Cost sono i nostri viaggi aerei e i nostri supermercati, blabla car e taxi di Uber, ma anche il lavoro di milioni di giovani e meno giovani, le cui tutele sono sempre più scarse e rimandano a una concezione ottocentesca della prestazione lavorativa» (Cristante 2018).
In tal senso, Sorry We Missed You è fin dal titolo una lettura del fenomeno a due facce descritto da Cristante. Alla lettera, è la formula di cortesia riportata sui biglietti che il corriere lascia al cliente quando non lo trova in casa; a un secondo livello, è una frase che sintetizza il bilancio emotivo di una famiglia che ha perso un punto di riferimento, che non riesce più a riconoscersi e vorrebbe ritornare a uno stato precedente.
Il percorso realizzativo di Loach e Laverty, ormai molto rodato (quattordici film insieme a partire da La canzone di Carla del 1996), procede dalla documentazione alla stesura narrativa, fino alle riprese rigorosamente in sequenza cronologica, con gli attori che accedono alla sceneggiatura un poco alla volta, vivendo scena per scena lo sviluppo dei personaggi. All’efficacia di questo modello produttivo danno un contributo decisivo interpreti che hanno esperienza della classe sociale e dei lavori descritti nel film; in questo caso, l’attore Kris Hitchen è un ex-idraulico che ha cominciato a recitare dopo i quarant’anni, a seguito di una depressione, mentre la co-protagonista Debbie Honeywood è un’insegnante di sostegno alla sua prima esperienza cinematografica.
Il cinema di Loach e Laverty anche in questa occasione è l’esito di una tensione tra realismo materiale e realismo drammaturgico. Il realismo materiale è quello dei corpi, dei volti, delle voci. La prima inquadratura del film è un puro campo sonoro, conosciamo il personaggio soltanto attraverso la voce sgraziata, naturale, non addomesticata di un uomo, prima che di un attore. L’ultima inquadratura è il primo piano dello stesso uomo che viaggia a bordo del maledetto furgone bianco, un primo piano ottenuto per recadrage mediante i bordi del finestrino del veicolo, con il chiaro intento di creare un simbolo: nonostante la famiglia sia così dispiaciuta della sua mancanza, l’uomo continua la sua corsa, intrappolato nelle dinamiche coattive della gig economy. Il volto è tumefatto, sofferente, senza speranza perché l’ipotesi di un riscatto sociale si è rivelata un abbaglio, eppure l’uomo al volante non riesce più a fermarsi.
Il realismo drammaturgico è quello della causalità: il racconto di Laverty procede come sempre per alternanza di situazione e azione, senza vie di fuga. Il personaggio si trova spesso a un bivio narrativo, dove può scegliere se tornare indietro o procedere verso la propria rovina, ma la sceneggiatura non gli dà un’opportunità di scelta: il corriere continua a correre. Laverty colloca almeno tre scene progressive che nel gergo degli sceneggiatori si chiamano “cancelletti” o “punti di non ritorno”: quando il protagonista deve decidere se vendere l’auto della moglie per comprare il furgone, la sua scelta sarà irreversibile; quando dovrà scegliere se accettare o meno un percorso urbano più redditizio ma più faticoso, chiuderà dietro di sé un altro cancelletto, e distruggerà altre connessioni con la sua vita precedente, fino all’azzeramento finale.
Il vecchio pregiudizio secondo il quale questo cinema ideologico, di cui Loach è stato un grande artefice, tenderebbe a sacrificare l’immagine a vantaggio dei valori da trasmettere si fonda su un’analisi parziale, limitata al quadro del secondo realismo, quello drammaturgico. Spostando l’attenzione sul primo realismo, quello dei corpi, si accede a una dimensione ulteriore del cinema di Loach, si scopre una via di fuga talmente evidente che è proprio sotto i nostri occhi. E senza limitarsi ai corpi in sé, non si può non rilevare una cura della messa in scena in questi interni domestici in cui anche una macchia d’umidità sul muro alle spalle di un attore entra a far parte di una composizione limpida e significativa: “Vogliamo fare film che siano chiari e veri”, proclamava Loach nel 1980, ed è un obiettivo che ancora persegue.
Ma va sottolineato che anche il primo livello di realismo, quello del racconto, ha le sue felicissime incrinature. Basti pensare, in Sorry We Missed You, alla struttura retorica del montaggio alternato che oscilla tra divergenza e convergenza, secondo uno schema che ci offre prima due scene di vita quotidiana dei personaggi distinti (il corriere e l’infermiera) e poi una scena condivisa. Se è vero che la serie di azioni del corriere è fortemente dominata dalla causalità e dall’ineluttabilità, è altrettanto vero che le azioni della donna, il suo entrare nelle case dei pazienti, il suo prendersi cura degli altri, sembrano innescare un meccanismo contrario, sempre reversibile.
La scena in cui una signora anziana si mette a pettinarle i capelli e lei glielo consente, abbandonandosi a una serena passività, come se fosse sua figlia o una sua bambola, è un’immagine molto esemplificativa di questa fuga dall’azione; così come la scena in cui lascia andare un autobus che doveva prendere a tutti i costi, o ancora al momento in cui si oppone all’escalation di violenza che rischia di distruggere i legami affettivi tra padre e figlio. C’è in questo film (e in tutto il cinema di Loach) una forza sotterranea che contiene la soluzione al problema narrativo, mentre i personaggi tendono a farsi trasportare dalla corrente di superficie e, qualche volta, a soccombere.
Riferimenti bibliografici
S. Cristante, Società Low Cost, Mimesis, Milano-Udine 2018.
J. Leigh, The cinema of Ken Loach: Art in the service of the people, Wallflower Press, Londra 2002.
L. Quart, A fidelity to the real: An interview with Ken Loach and Tony Garnett, Cinéaste, Vol. 10, No. 4, (Fall 1980) pp. 26-29.
Sorry We Missed You. Regia: Ken Loach; sceneggiatura: Paul Laverty; fotografia: Robbie Ryan; montaggio: Jonathan Morris; musiche: George Fenton; interpreti: Kris Hitchen, Debbie Honeywood, Rhys Stone, Katie Proctor; produzione: Sixteen Films, Why Not Productions, Wild Bunch, BFI, BBC Films, Les Films du Fleuve, France 2 Cinéma; distribuzione: Lucky Red; origine: Regno Unito, Belgio, Francia; durata: 101′.