Diversi articoli sono usciti e stanno uscendo parallelamente ai diciotto episodi della nuova stagione di Twin Peaks che si concluderà in settembre. Testimonianze di un lavoro analitico e critico capace di accompagnare il processo seriale, contribuendo a comprenderne e intensificarne gli esiti.

Twin Peaks – Il ritorno racconta le vicende successive di venticinque anni rispetto alla morte di Laura Palmer. Una nuova stagione in cui la geografia “locale” che caratterizza buona parte della filmografia di David Lynch sembra lasciare spazio a un modello continentale, globale e cosmico, con tanto di riferimenti espliciti a Dune (1984), al Werner Herzog di Fata Morgana (1971) e, soprattutto, all’Odissea kubrickiana (1968). Alcune vicende sono ambientate a New York, altre a Las Vegas, nel South Dakota, in New Mexico, ecc., mentre soprattutto nel secondo e nell’ottavo episodio la macchina da presa sembra penetrare la densità della materia e diegetizzare la scissione atomica. La cittadina di Twin Peaks resta l’incomprensibile punto di snodo dell’eterogeneo, dove il bene e il male, il banale e il complesso, il pieno e il vuoto si incastonano.

La tentazione è quella di adottare tecniche interpretative alla Sherlock Holmes, ma nell’universo lynchiano nessun mistero è un segreto ed è del tutto impensabile di poter ridurre l’intensità costruttiva del caos all’arbitrarietà numerica del caso. Piuttosto che avventurarsi in ipotesi investigative dove tutto tende a tornare, è dunque più saggio lasciarsi affascinare dai dettagli apparentemente fuori posto: se non “indizi”, quantomeno spunti per ipotesi e digressioni.

Ecco dunque un particolare che si ripete da un episodio all’altro, con tanta insistenza da non poter fare a meno di saltare agli occhi. Un tratto anacronistico – nel senso più banale del termine – rispetto all’ambientazione contemporanea dei fatti: si tratta della fattura e della dimensione dei telefoni continuamente impiegati dai personaggi. Telefoni col filo arricciato, tanto grossi da risultare grotteschi. Li usa la segretaria dello sceriffo e li usa Janey-E, la moglie di Doogie; li usa ripetutamente il personaggio di Lorrain prima di ricevere la visita di Ike “The Spike” e lo usa quest’ultimo nel nono episodio, ma anche la Signora Ceppo per comunicare con il vice-sceriffo Hawk; li usa l’agente Gordon Cole – interpetato da Lynch stesso – negli uffici dell’FBI.

Nell’impossibilità di dare risposte definitive ai “misteri di Twin Peaks”, viene dunque voglia di porsi domande minori. Viene da chiedersi il perché di quest’attrait du téléphone, questa fascinazione per il telefono: perché dopo il padiglione auricolare di Velluto blu (1986), dopo il citofono di Strade perdute (1997) e dopo il grammofono di INLAND EMPIRE (2006), si continui a insistere sulla messa in scena di dispositivi di questo tipo. Telefoni retrò che, nella nuova stagione, coesistono con tecnologie più recenti: dall’I-phone 7, posseduto da quasi tutti i personaggi principali, alla scrivania di legno chiaro dello sceriffo Truman che, improvvisamente, si trasforma in un tecnologico desktop dal quale è possibile far partire una chiamata Skype.

Tutto, nel cinema di Lynch, dà l’impressione di essere al contempo troppo assurdo e troppo astratto. Ed è forse per questo che viene la tentazione di appigliarsi al telefono – alzare la cornetta – e identificare una sequenza che sia esemplificativa di qualcosa come una teoria. 

È l’episodio quinto. Gli agenti sono nella prigione del South Dakota e cercano di interagire con un prigioniero che assume le sembianze dell’agente Cooper – disperso da decenni – ma che costituisce in realtà il doppelgänger di Cooper, un’incarnazione di BOB. La conversazione si svolge su toni d’incomprensibilità reciproca, quando quest’ultimo compone una lunghissima serie numerica sulla tastiera del vecchio telefono con il quale comunica con gli agenti. L’interfaccia va in tilt: gli schermi a circuito chiuso mostrano le immagini di un’officina meccanica e di una trasmissione televisiva di cucina; i neon saltano; gli effetti del corto circuito si fanno sentire fino a Buenos Aires.

Si tratta di una sequenza sbalorditiva in cui il regista dà piena espressione alla sua capacità di suscitare il clamore dalla trivialità, dall’eccedenza dell’antiquato, dall’improbabilità assoluta di quanto mostrato. Il clamore del low-fi, sufficiente a BOB per mandare in cortocircuito il sistema e le pretese istituzionali di investigazione, controllo e garanzia.

Per quale motivo mostrare delle cornette tanto ingombranti, telefoni improponibili che si mescolano con nuove tecnologie adibite a uso privato e a fini istituzionali? In un certo senso, si potrebbe dire che la fattura dei telefoni è il mezzo di contatto tra la nuova stagione e quelle degli anni novanta, e dunque con quegli anni cinquanta che costituiscono una costante atmosferica della provincia lynchiana. Ma un’ipotesi più audace – che cerchi di tenere conto anche del cambio di scala dal locale al globale al cosmico – è che l’impianto della telefonia possa essere concepito come dispositivo di anticipazione e figura di traslazione dell’idea stessa di Rete.

La Rete come protocollo di connessione e condizione di vita. Dispositivo capace di far circolare dati, generare metadati e condizionare condotte su scala globale. La Rete e il suo risvolto opaco: il controllo e la paranoia di essere spiati, tracciati, osservati da una posizione vuota posta “dietro” allo schermo; dietro allo schermo LCD iperconnesso con Showtime o Sky Atlantic che trasmette Twin Peaks; dietro a un qualsiasi streaming pirata. (Si veda a tal proposito il primo episodio della stagione e la morte violenta dei due giovani amanti “osservatori” della gabbia di vetro nella città di New York; la stessa dalla quale passa Cooper uscendo dalla Loggia nera). La Rete e l’idea di guerra informatica, la paura di una nuova Hiroshima. (Si veda tutta la seconda parte dell’ottavo episodio che inizia con un esplicito riferimento al “Trinity Test” del 16 luglio 1945, il primo esperimento nucleare della storia). La Rete e il suo doppiofondo, i domini del dark web (il personaggio William Hastings che, nel nono episodio, rivela di aver visitato una dimensione parallela dove avvengono scambi tra molti soggetti).

Nel corso di questa nuova stagione di Twin Peaks, telefona anche lui, Gordon Cole, con un appariscente apparecchio rosso o con un inverosimile cordless con un’antenna che sembra la canna di una pistola. Ma, piuttosto che intento a telefonare, Lynch sembra preferire ritrarsi con il voluminoso apparecchio acustico che lo sottopone a subire il dolore fisico dei fischi e delle interferenze.

La sordità che lo caratterizzava già nella seconda stagione e nel prequel Fuoco cammina con me (1992). È appena il terzo episodio della nuova stagione quando, giusto per pochi secondi, giusto il tempo di un’inquadratura, si ha come l’impressione di aver afferrato qualcosa in quel flusso che è Twin Peaks. Un elemento capace di confermare la “pista acustica” che si è deciso di seguire come il filo ingarbugliato di una vecchia cornetta. Siamo nello studio di Cole che ha appena saputo del ritrovamento di Cooper. È inquadrato di spalle mentre si dirige verso la porta d’uscita. In primo piano, leggermente fuori fuoco, il suo apparecchio acustico. Sullo sfondo, un poster enorme di Franz Kafka: da sempre un riferimento di Lynch, la cui influenza sull’opera del regista resta ancora in buona parte da approfondire. Si pensa al Kafka di America e a quello delle Lettere a Felice, dove si ritorna continuamente sul telefono e sulla possibilità di innestarlo con altri dispositivi, come un’ossessione:

Si inventa un collegamento tra il telefono e il dittafono, che non dovrebbe essere una cosa molto difficile. […] L’unione tra grammofono e telefono non avrebbe d’altro canto un’importanza così universale, sarebbe soltanto una facilitazione per gente che come me ha paura del telefono. Vero è che gente come me ha anche paura del grammofono e in genere non sa come cavarsela (pp. 251-52).

Ma si pensa anche e soprattutto al Kafka del Castello, dove il telefono è descritto come “una pianola meccanica” e dove le telefonate frenetiche fatte all’interno del Castello vengono avvertite dall’esterno “come un fruscio e come un canto”. Come spiega il sindaco all’agrimensore, in un dialogo che potrebbe benissimo fare parte della sceneggiatura di Twin Peaks: “questo fruscio o questo canto è anche l’unico messaggio corretto e degno di fede che i telefoni di qui ci trasmettono, tutto il resto è illusorio” (p. 79).

Nel corso della sua lunga carriera e nelle molte interviste rilasciate, Lynch ha sempre esaltato l’importanza della componente acustica: nel cinema, nelle arti, nella vita. Sono molte le fotografie che lo ritraggono con le cuffie indossate, oppure appoggiate sul collo. Si immagina sordo, in Twin Peaks, David Lynch. Si autoritrae così. Una sordità che non sembra identificarsi con un handicap e che non gli impedisce di parlare al telefono, di ricorrere a varie tecnologie e di condurre a pieno il suo lavoro. Un po’ come Kafka – ma senza tanti timori –, ipotizza e sperimenta l’innesto di organi di senso, protesi e dispositivi di comunicazione.

È per questa via che il regista sembra cercare di trasformarsi in una “macchina acustica” capace non tanto di ascoltare e comprendere, quanto di sentire le interferenze tra i diversi livelli seriali che sfruttano l’etere e il ciberspazio. È dunque dal punto di vista del suo orecchio – proprio in quel timpano e grazie al gioco di manopola con il quale regola il volume dell’apparecchio acustico – che tanto il microscopico nucleare quanto il macroscopico interstellare si rendono ugualmente esplorabili, nell’intensità.

Il fatto è che tra tutti i registi di questi anni, Lynch sembra essere il più consapevole di una cosa banale: che accostando una conchiglia all’orecchio si sente il vento e si vede il mare. Ma, come noterà chi conosce il suo cinema, a ben vedere la geografia marittima non fa per lui, è molto rara nel suo cosmo. Mutatis mutandis, teniamo dunque ferma l’efficacia sinestesica della metafora. Twin Peaks: quella città dove avvicini l’orecchio a una conchiglia – va bene anche un fossile qualsiasi, un guscio d’uovo, un oggetto senza nome, una qualche forma di concavità – e sprofondi in un bosco, il vento soffia e scuote le foglie degli alberi, è piena notte. Suona più o meno così…

Riferimenti bibliografici
M. Chion, David Lynch, tr. it., Lindau, Torino 1995.
G. Deleuze, La piega. Leibniz e il barocco, tr. it., Einaudi, Torino 1990.
D. Dottorini, David Lynch. Il cinema del sentire, Le Mani, Genova 2004.
E. André, D. Zabunyan, L’attrait du téléphone, Yellow Now, Liège 2013.

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