È uno dei più grandi libri del Novecento, e non solo americano. Meno noto dei grandi romanzi di Faulkner e Steinbeck, Let Us Now Praise Famous Men (Sia lode ora a uomini di fama) di James Agee e Walker Evans non solo non è da meno, ma va oltre, spingendosi ad un livello di radicalità ed originalità tali da non avere, di fatto, né precedenti né in sostanza eredi.

Dov’è l’originalità del libro? James Agee e Walker Evans, uno scrittore e un fotografo, nel 1936, durante gli ultimi anni della Grande Depressione, sono in viaggio nel Sud degli Stati Uniti per un «lavoro abbastanza curioso […], preparare, per una rivista di New York [“Fortune”], un articolo sui fittavoli, nelle zone cotoniere degli Stati Uniti, in forma di reportage verbale e fotografico della vita quotidiana e dell’ambiente di una famiglia media bianca di contadini» (1994, p. 21). Ma quello che doveva essere un reportage sulle difficili condizioni di vita nel Sud degli Stati Uniti, nello spirito del roosveltiano Farm Security Administration, il grande progetto di fotografia documentaria e sociale teso a mostrare le difficili condizioni di vita del periodo, alla fine salta. Ciò che i due autori produrranno sarà giudicato “impubblicabile” da “Fortune”. Ne nascerà allora nel 1941 un libro. Un libro unico, che è tale solo «per necessità», perché di fatto è più «un’impresa di esistenza umana in atto, in cui il lettore è non meno centralmente coinvolto degli autori e di coloro di cui quegli autori raccontano» (ivi, p. 23).

A che cosa dà vita questa «impresa di esistenza» quando l’incontro con il luogo e le famiglie fa saltare qualsiasi possibilità di produrre un mero resoconto per i lettori benestanti dell’Est? È lo stesso Agee a dirlo con parole suggestive, parlando del libro: «La struttura, mi vien fatto di dire, dovrebbe essere globulare: dovrebbero esserci diciotto o venti sfere intersecate, inclusioni di bolle alla superficie di un ruscello; uno di questi globi è ciascuno di voi. Il cuore, nervo, centro di ciascuna è una vita umana individuale» (ivi, p. 11).

Ecco la parola che fa da contrassegno identificativo dell’intero libro: la singolarità umana e non solo. C’è anche la singolarità di case, luoghi, momenti. Questa singolarità non può essere restituita dalla logica di un racconto, né da una tesi ideologica, né da prossimità empatica, men che mai dallo sguardo intrusivo del giornalista:

Sembra a me curioso, per non dire osceno e affatto terrificante, se accade che un’associazione di esseri umani riuniti dal bisogno e dal caso, e a fini di profitto costituitisi in azienda […], un organo di giornalismo, si metta a spiare nell’intimo le vite di un gruppo di esseri umani senza difesa e spaventosamente deprivati, una famiglia rurale indigente e ignorante, allo scopo di esibire la miseria, lo svantaggio e l’umiliazione di queste vite di fronte ad un altro gruppo di esseri umani (ivi, p. 37).

Ma questa intransigenza morale è solo la scorza, la superficie. Se fosse tutto, non sarebbe gran cosa. La sorpresa di questo incontro con le famiglie di contadini, che manda all’aria il progetto di reportage giornalistico, genera altro. Attraverso quelle vite singolari, dove il sociale è terribilmente arretrato, vediamo emergere più limpidi i contrassegni dell’umano. L’essere dell’uomo su questa terra, e la sua connessione con l’universo intero, prendono corpo dove il sociale arretra: «Qui, una casa o una persona ricevono da me soltanto il più limitato dei loro significati: il loro vero significato è assai più enorme. È che esistono, nell’attualità dell’essere, come voi o io, e come nessun personaggio dell’immaginazione potrebbe mai esistere» (ivi, p. 41).

Come restituire allora questo puro essere, senza altra determinazione? Come lasciare traccia di questo incontro con persone e luoghi senza tradirne lo spirito? La scrittura sembra mancare sempre questo essere, cancellarlo, determinare una distanza. Anche quando si fa scrittura artistica, per cui il libro «non concepitelo come Arte» (ivi, p. 43). Forse sarebbe meglio solo fotografie, più i materiali della vita quotidiana: «Mi fosse solo possibile, non metterei affatto scrittura qui. Ci sarebbero solo fotografie; il resto sarebbero frammenti di tessuto, fibre di cotone, zolle di terra, trascrizioni di discorso, pezzi di legno e ferro, fiale di odori, piatti con su cibo ed escrementi» (ivi, p. 42). Insomma per restituire la vita in sé, l’essere dell’uomo spoglio di ogni proiezione sociale, andrebbe negata l’essenza stessa del libro e della scrittura.

Ma questo è possibile solo attraverso il libro e la scrittura stessa. E le fotografie. Quelle di Evans, che accompagnano il testo di Agee. Una serie di ritratti di adulti, soli o in famiglia, di scorci di case, di cittadine di una Alabama povera, restituita senza sguardo compassionevole. Ma soprattutto una serie di ritratti di bambini, che colpiscono per una certa luminosa presenza alla vita, nonostante, o forse proprio per gli abiti lisi, i piedi scalzi, la marginalità sociale che, presente ovunque nelle foto viene resa astratta, sottratta alla specifica contingenza spazio-temporale (nella maggior parte dei casi non identificabile). Come nella foto di un bambino seduto sugli assi di legno di una veranda, camicia strappata, lineamenti definiti del volto e sguardo fermo, lateralmente orientato: qualcosa che ricorda il kid chapliniano, senza aria comica, ma anche senza tono drammatico. Bambini in cui Agee vede iniziare nuovamente il mondo: «In ogni bambino che nasce, non importa in quali condizioni e da quali genitori, rinasce la potenzialità del genere umano» (ivi, p. 283).

Tutto il genere umano raccolto in una nascita, così come l’universo intero, dalla più piccola alla più grande delle sue parti, connessa ad ogni singolo individuo:

Ciascuno è intimamente connesso al fondo, con l’estremo margine del tempo: 

Ciascuno è composto delle stesse sostanze identiche alla sostanza di tutto ciò che lo circonda, sia i comuni oggetti della sua indifferenza sia il centro incandescente delle stelle (ivi, p. 79). 

Un universo che giunge al cielo stellato, spesso presente nel mondo narrativo di Agee, come leggiamo anche nel romanzo postumo A Death in the Family, in una immagine di armonia notturna, quando padre e figlio sono fuori: «They were aware of the quiet leaves, and looked into them and through them. They looked between the leaves into the stars» (2006, p. 18). Solo nello spazio-tempo sospeso, quando le dinamiche sociali si allentano, possiamo vedere la volta stellata del cielo, così distante ma anche così prossima. E lì nell’Alabama dei fittavoli nella Grande Depressione, Agee trasfigura tutto in una poesia dell’umanità come pura presenza al mondo, piccolo e vasto allo stesso tempo, che si giustifica da sé, senza aggiungere altro.

E nuovamente torna la domanda, come fare a dire tutto questo in un libro? Essendo fin dall’inizio chiara l’impossibilità di ogni progetto giornalistico. Fare allora un libro, ma che non sia un libro («non ha parte in quel regno in cui l’incredulità è d’abitudine sospesa», 1994, p. 244), una grande opera d’arte che non sia arte. Un libro che puoi iniziare da qualsiasi punto, anche nel mezzo, che si disperde e ritorna (dalla struttura accentrata e rizomatica, diremmo con Gilles Deleuze), fondato su scarti e linee di fuga che sconfessano ogni identità, e aprono dei divenire. Come quelli che compie lo stesso Agee, guardando dei corpi che dormono: «Ma non sono soltanto i loro corpi ma le loro posture che io so, e il loro peso sul letto o sul pavimento, di modo che anch’io mi sdraio dentro ciascuno di loro esausto in un letto, e divento non l’io che sono con sua forma e peso, ma quello di ciascuno, e per intero, affondati nel sonno come pietre» (ivi, p. 81).

Un libro, «soltanto un libro», dove la vita in sé accede a scrittura senza né logica narrativa, né interpretativa, né pragmatica, e dove personaggi, cose, ambienti, si disseminano in tracce talvolta descrittive, talvolta riflessive, sempre poetiche. Così la scrittura traduce l’incontro con l’umanità e la vita. Tali tracce restano anche nelle fotografie di Evans, capaci di astrarsi dal contesto sociale. E di restituire le geometrie degli spazi interni ed esterni delle semplici case di legno, e delle strade, e i ritratti senza tempo di bambini, uomini, famiglie. Ma viaggiano autonome dalla scrittura: «Le foto non sono illustrative. Esse, e il testo, sono coeguali, reciprocamente indipendenti, e pienamente collaborativi» (ivi, p. 23).

Tra le fotografie di Evans e la scrittura di Agee c’è dunque uno scarto. Quest’ultima entra in un processo di divenire radicale che costruisce intervalli, accelerazioni, pause; le prime compongono invece stasi, astrazioni. È la differenza di movimento ciò che sorprende e genera senso. La fotografia di Evans ritaglia il mondo, lo astrae a partire dalla sua singolare concretezza, lo porta a visibilità in istantanee o pose. La scrittura di Agee lo colloca invece in un divenire singolare di spazi e di tempi («camera da letto», «tarda mattinata di domenica») a partire dal quale portare alla luce l’universalità e la potenza dell’umano: «Ogni persona, per quanto guasta e avvelenata e accecata, è infinitamente più capace di intelligenza e di gioia di quanto si permetta di esserlo» (ivi, p. 84). L’insieme dei due movimenti e il loro scarto rendono la meraviglia di questo libro pari alla sua necessità, allora come oggi.

Riferimenti bibliografici
J. Agee, A Death in the Family, Penguin, London 2006.

James Agee, Walker Evans, Sia lode ora a uomini di fama, il Saggiatore, Milano, 1994.

Walker Evans, Bud Fields e la sua famiglia, Alabama, 1935 o 1936.
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