In pochi nel 2013 avrebbero scommesso che la serie israeliana Shtisel, la cui terza stagione è stata co-prodotta da Netflix e resa disponibile in Italia il 25 marzo, sarebbe riuscita a parlare a milioni di spettatori nel mondo – soprattutto se quel parlare è una lingua minoritaria come l’ebraico moderno, inframmezzata da parole e dialoghi in yiddish. Anzi, forse è l’esistenza stessa di questa terza serie di episodi, nove in tutto, a essere merito di un pubblico cresciuto nel tempo, anche in seguito al successo internazionale della miniserie Unorthodox di cui costituisce il contraltare concettuale. Entrambe esteticamente ineccepibili per quanto riguarda la ricostruzione del contesto religioso ebraico ultraortodosso, lo sguardo con il quale si guarda a questo mondo è però contrario, due scanalature opposte di uno stesso diamante il cui riverbero dona un riflesso antitetico in base al lato dal quale lo si guarda.
Se è misterioso il mondo in cui Shtisel è ambientata, ancora più misterioso è come i personaggi di questo mondo apparentemente distante e marginale abbiano potuto comunicare con quel mondo globale a cui il pubblico di Netflix appartiene. Le parole e i dialoghi dei membri della famiglia Shtisel e dei personaggi che gravitano loro intorno sono intrisi di quella millenaria tradizione religiosa e culturale ebraica che si apprende nel tempo e che vede al centro lo studio dei testi – la Torah, il Talmud, i Midrashim. Può una serie non solo intrattenere ma anche alfabetizzare un pubblico nei confronti di una cultura? In generale chissà, certamente Shtisel ci riesce. Pensare che milioni di persone siano entrate visivamente e acusticamente in contatto con gesti e parole divenuti a un tratto conoscibili ha del miracoloso, soprattutto se quei gesti e quelle parole si collegano a una realtà in parte ostica alla conoscenza qual è il mondo degli Haredim. Scrivendo queste righe prima di Shtisel mi sarei preoccupata di chiosare i termini ebraici dandone una spiegazione perlomeno sommaria, dopo questa serie forse non ce n’è più bisogno.
Nel nostro paese, nei decenni trascorsi, un enorme contributo da questo punto di vista era già stato dato dagli scrittori israeliani contemporanei – David Grossmann, Abraham B. Yehoshua, Amos Oz in particolare, ma non solo – o, meglio, dalle traduzioni delle loro opere alle quali i lettori italiani hanno sempre riservato un’accoglienza generosa. Al termine di molti di quei libri un glossario spiegava i termini ebraici presenti nel testo, con Shtisel le persone hanno imparato vedendo ciò che le parole esprimevano. E se non lo hanno capito al volo, la curiosità le ha spinte a voler capire approfondendo.
Ma non è forse questo l’aspetto più interessante del successo di questa serie. Il mondo degli ebrei di Geula è un mondo così denso, un concentrato esistenziale di vite che apparentemente scorrono su binari rigidamente stabiliti, binari originati direttamente dalla Torah. Questa densità è connessa ad altrettanta semplicità, se così vogliamo dire: niente internet, abiti uguali per tutti, ruoli omogenei in tutte le coppie per l’uomo e per la donna, tappe esistenziali condivise dall’intera comunità (nascita, Bar/Bat Mitzvà, studio, matrimonio combinato, figli, e così via fino alla morte). È come se la nettezza di queste vite apparentemente semplici permetta di concentrarsi sugli aspetti centrali dell’esistenza e di riflettervi con maggiore profondità, vite che fanno da lente d’ingrandimento per i fatti essenziali dell’esistenza sui quali si ragiona senza sosta.
Quando i personaggi parlano per aneddoti, riferendosi alle storie della tradizione rabbinica, ci ricordano che noi esseri umani, tutti noi, veniamo da lontano. Veniamo da chi ha vissuto prima di noi, ha ragionato prima di noi, ha fatto scelte nella vita prima di noi. E non è poi così male, a volte, sentire che abbiamo in comune degli esempi dai quali farsi ispirare: da respingere o da emulare in base al nostro libero arbitrio, ma che questi esempi, non modelli, esistono e non ci fanno sentire orfani. E sentirlo non è male per niente soprattutto in un mondo che barcolla durante una pandemia che ci fa provare fragilità. Ognuno di noi è il primo a vivere la propria vita e sarà anche l’ultimo, ma altri hanno vissuto prima di noi e in questo confronto giacciono a volte grandi verità, perle di saggezza che luccicano in tutta la loro semplicità: “Avremo paura e pregheremo insieme e continueremo ad avere paura. […] Perché è così. Quando hai qualcosa di prezioso, hai paura di perderlo”. Questo dice Hanina (Yoav Rotman) a Ruchami (Shira Haas) e forse è quello che (religione e preghiera a parte, dipende dal credo di ognuno) ciascuno di noi umanamente direbbe quando sa che potrebbe perdere per sempre la persona che ama. Ed è proprio questa universalità, io credo, che riguarda l’amore, le scelte, la vita e la morte, a essere arrivata da un mondo così piccolo come Geula a un mondo tanto grande come quello in cui Netflix lo ha proiettato (grazie a una sceneggiatura magnifica).
In questi nuovi episodi il fil rouge sembra essere il confronto del mondo degli Haredim con la modernità in movimento. Ogni membro della famiglia Shtisel, per motivi diversi, si trova a dover fronteggiare la modernità che avanza o, meglio, a dover scegliere come rapportarsi a essa, come gestire il conflitto interiore tra la parola di D-o, la regola, la tradizione, e la propria individualità. Questa scelta è narrativamente fruttuosa e feconda, quindi pazienza se in questa terza serie il dialogo finale tra Akiva (Michael Aloni) e suo padre Shulem (Dov Glickman) s’ispira un po’ troppo didascalicamente alla Lettera al padre di Kafka – compresa la palese simmetria tra i fidanzamenti e legami amorosi falliti di Franz e quelli di Akiva –, pazienza se emerge sempre di più la vicinanza un po’ scontata del personaggio di Akiva con l’Asher Lev del romanzo di Chaim Potok, pazienza perché queste sono piccole sbavature di una serie talmente bella alla quale si perdona tutto, una serie che ci dona più di quanto non fosse immaginabile sperare. Una serie che ci fa capire quanto nella vita ciò che sembra un paradosso forse non lo è, che aspira a capovolgere il senso comune e a farci ragionare sul fatto che nella vita una strada lunga sia, a volte, quella più breve.
Shtisel. Ideatori: Ori Elon, Yehonatan Indursky; interpreti: Dov Glickman, Michael Aloni, Neta Riskin, Shira Haas, Sasson Gabai, Hadas Yaron, Eliana Shechter, Zohar Strauss, Ayelet Zurer; produzione: Yes Studios, Netflix; distribuzione: Netflix; origine: Israele; anno: 2013 – in produzione.