Esistono scrittori che rendono il nostro presente più vivido, che ci accompagnano da anni come un’alba placida, che illumina le tenebre, con sistematica presenza. Amos Oz è stato questo per molti. Luce e coraggio. Oz, il cognome d’arte volutamente scelto dall’intellettuale israeliano al posto di quello paterno, in ebraico vuol dire forza. La sua è stata una forza benefica, costellata dalla grandezza letteraria, dal coraggio politico e dalla ricerca vitale di capire la realtà presente. Non senza timore, non senza paura, ma con la forza necessaria a non indietreggiare, con il coraggio di saper combattere a suon di parole.

I libri di Amos Oz sono stati una presenza costante per tanti, e il modo per scoprire ed entrare in relazione con la storia di un paese per alcuni discutibile, a volte misterioso, come Israele. Per me questi libri sono stati gli alleati di tante discussioni, lo strumento attraverso cui aprire un varco di dialogo su un paese così complesso (e per me amato). Grazie a questi libri sono stata ascoltata da chi probabilmente non lo avrebbe fatto, sono stata percepita più vicina da chi mi avvertiva lontana. La sua letteratura ha plasmato i giorni di adolescente, ragazza e donna, nella certezza che mai quella luce speciale sarebbe mancata alle sue parole, ai suoi personaggi, una luce che riusciva a splendere anche e soprattutto nella tragicità.

Amos Oz, letto e amatissimo in Italia – forse più che nel suo paese di origine, dove le sue posizioni politiche lo hanno spesso reso uno scrittore scomodo – ha narrato con pervicacia e purezza gli assoluti delle relazioni umane, con le mille sfaccettature delle passioni che il cuore sa percepire e la letteratura restituire con una presenza ancora più viva della vita. Con Abraham B. Yehoshua, suo coetaneo, e David Grossman, Amos Oz ha incarnato nel nostro paese la letteratura della generazione di scrittori nati e poi cresciuti in Israele, quella letteratura che aveva già visto in Bialik e Agnon (premio Nobel per la Letteratura nel 1966) i padri della scrittura letteraria in ebraico moderno, la lingua nata grazie alla magia di Ben Yehuda: realizzare un’utopia concretizzando una lingua, attraverso un rigorosissimo lavoro intellettuale. E forse l’identità di nessun paese è così indissolubilmente legata alla creazione della propria lingua e alla nascita di una propria letteratura come Israele.

Per la generazione di scrittori a cui apparteneva anche Amos Oz, così come per i precedenti, la pratica della letteratura in ebraico moderno ha voluto dire anche avere una posizione politica. Anzi, non soltanto averla, ma soprattutto decidere di comunicarla, ha voluto dire praticare, oltre alla letteratura, anche una vera e propria militanza politica. Oltre alle numerosissime interviste e articoli, in patria e all’estero, Amos Oz ha portato avanti una produzione saggistica parallela alla produzione letteraria, alla quale ha affidato le proprie riflessioni politiche. Era il 2004 quando ha pubblicato il pamphlet tradotto in italiano Contro il fanatismo, e ancora Cari fanatici nel 2017, oltre a una ricca serie di saggi dedicati alla storia del conflitto arabo-israeliano.

Lo stato di Israele si nutre da sempre anche della sua carica ideale, dell’idea di se stesso, così la riflessione politica e l’analisi storica sono centrali nei libri di Oz tanto quanto le relazioni umane: «L’inclinazione a unire ciò che è personale a ciò che è storico […] per alcuni scrittori può essere un ostacolo. Oz ha saputo trasformarla in un talento» (Avishai 2019). L’umanità ritratta nei suoi personaggi e il contesto storico israeliano emergono nitidi grazie a una commovente capacità narrativa e alla scrittura di Oz, inizialmente affidata in Italia a diversi traduttori, per poi trovare la propria mirabile voce italiana nelle numerose traduzioni di Elena Loewenthal. Amos Oz è, tra l’altro, l’autore israeliano attualmente più tradotto nel mondo: i suoi libri sono tradotti in gran parte delle lingue europee ma anche, ad esempio, in cinese, coreano, giapponese, portoghese brasiliano, tailandese, turco.

La produzione letteraria di Oz si snoda dalla metà degli anni ’60, poco prima della cosiddetta Guerra dei sei giorni, con i racconti tradotti in italiano con il titolo Terre dello sciacallo (1965), a oggi, passando per libri di prosa poetica come Lo stesso mare, alla fiaba contemporanea D’un tratto nel folto del bosco, scritta a metà degli anni ’80 ma tradotta in italiano solo successivamente. E poi Conoscere una donna, Non dire notte, La vita fa rima con la morte, libri dove il mistero dell’essenza umana s’insinua nella relazione d’amore, dove la narrazione sfida l’identità che sgretola ogni certezza, con una scrittura che scava e procede per strati carsici, come carsica è ogni identità. È una scrittura che come un prisma illumina un paese, Israele, e la sua storia, e al contempo riflette i molteplici strati di ogni relazione, le particelle fatte di luce e di buio di ogni essere umano, che sa restituire figure di uomini e di donne magistralmente ritratti nella loro complessità, come ad esempio in Michael mio (1968, tradotto in italiano nel 1975).

La letteratura di Amos Oz nasce dall’inclinazione all’analisi del mistero dell’essenza umana, anche, ma non solo, nella sua relazione con la storia. «Quando so cosa pensare, scrivo un saggio. Quando non so cosa pensare, scrivo un romanzo» (Avishai 2019). In Una storia di amore e di tenebra (2002), il libro autobiografico che ha ottenuto numerosi e prestigiosi riconoscimenti, oltre a una trasposizione cinematografica (Sognare è vivere, Portman, 2015), Amos Oz concretizza questo pensiero forse più che in ogni altro suo libro. Per comprendere la densità della propria storia familiare, il passato ma soprattutto il presente di Israele, s’immerge attraverso la scrittura nella propria storia personale, nell’epopea delle quattro generazioni che lo hanno preceduto e si avvicina a quella madre amata ma schiacciata, a suo dire, «dal peso della storia, dai traumi e dalla paura del futuro» (ivi). Le radici dell’identità personale s’intersecano con quella familiare e, come un sasso lanciato nell’acqua, attraverso cerchi concentrici portano al cuore della storia di Israele.

Può la scrittura restituire una nuova identità o avvicinarci, almeno, alla comprensione di ciò che siamo e di ciò che siamo stati? Quella di Amos Oz lo ha fatto. I libri di Amos Oz ci restituiscono sempre una forza interiore costante, sempre viva, che pulsa nel cuore della storia. E che sia il suo ricordo, umano e letterario, di benedizione.

Riferimenti bibliografici
B. Avishai, The Israel of Amos Oz, The New Yorker, New York 2019.
http://in.bgu.ac.il/en/heksherim/Archives/Pages/default.aspx.

Tags     Amos Oz, Israele, scrittura
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