Osservare Shira Haas, l’attrice protagonista di Unorthodox, è osservare il cuore della serie Netflix lanciata lo scorso marzo. Ma osservarla davvero vuol dire contattare anche quel corpo minuto, un corpo che ha sofferto a causa di una grave malattia infantile, un corpo che discende direttamente dai sopravvissuti alla Shoà (suo nonno), un corpo che ha vissuto la leva militare obbligatoria in Israele, dove è nata. Un corpo nel quale deve essere fluita molta fatica e sofferenza. Sarà per questo motivo che questo corpo è quello perfetto per una serie che racconta l’emancipazione di una giovane donna, della sua mente e del suo corpo appunto, da un ambiente in cui l’individualità ha contorni sfocati? Per non dire nulli, perché agguantata da un’appartenenza comunitaria divorante.
Le labbra, gli occhi incredibili di Shira Haas, “Esty” (diminutivo di Esther) nella serie, la loro potenza che sembra duplicarsi proprio per la minutezza dell’attrice, sono il veicolo migliore per condurci in due luoghi colmi di mistero. Gli occhi di Shira/Esty ci introducono in due luoghi sconosciuti ai più, per quanto strenuamente, ossessivamente difesi, vivificati e protetti: il chassidismo (Satmar, in questo caso, visto che l’ebraismo chassidico conta molti e diversi rivoli, tanti quanti sono le anime ebraiche, ovvero innumerevoli) e la lingua yiddish.
Quanti pochi luoghi misteriosi sono rimasti, ormai, nella nostra società globale. Sarà forse anche per questo che la serie sta riscuotendo un notevole interesse da parte del pubblico? Per l’inaccessibilità affascinante di questi luoghi, la cultura chassidica e la lingua yiddish, che Unorthodox ha reso narrativamente accessibili alla massa? Chassidismo versione pop per la prima volta sugli schermi.
Ci voleva tutta la bravura e il corpo di Shira Haas per attirarci in un luogo culturale e linguistico (nell’ebraismo la lingua è luogo fisico, molto più fisico di tanto altro, in particolare lo yiddish) così stra-ordinari, nel bene e nel male. Ci volevano occhi talmente intensi da rapirci, ma ugualmente trasparenti e sinceri, ai quali poterci affidare. Unorthodox non è una riflessione sul chassidismo, non è una serie che parla di questo, è evidente. Questa serie mette in scena la cultura chassidica, la narra, ma non credo che gli spettatori abbiano compreso o acquisito nozioni sull’ebraismo in genere, sull’ebraismo chassidico o sulla comunità Satmar a Brooklyn in particolare.
Noi spettatori vediamo di più, molto di più, di una delle declinazioni dell’ebraismo ultraortodosso grazie a una narrazione di qualità e filologicamente rigorosa, ma non facciamo esperienza di conoscenza di quella realtà. D’altronde, questo, non è il compito di una serie televisiva dei nostri tempi. Unorthodox non ha alcun intento conoscitivo, ma puramente narrativo. In questa serie non si ritrovano le riflessioni e il ritmo, ad esempio, di quel libro superbo che è Il mio nome è Asher Lev di Chaim Potòk, che nei confronti del mondo chassidico applica un’attitudine conoscitiva ben differente.
Alla fine della visione di Unorthodox, e a meno che non lo si sapesse già prima, non si sa cosa sia lo Shtreimel e perché Yanky lo porti con sé in aereo a Berlino; non si sa perché sia una cosa così sconvolgente che una gravidanza venga scoperta durante una cena che non è una cena qualsiasi, ma il Seder di Pesach, e non si spiega nemmeno cosa sia il Seder e cosa sia Pesach; non si sa a cosa servano le fasce che la mattina ricoprono il braccio e la testa di Yanky per pregare e perché ricoprano proprio la testa e il braccio e perché quel braccio specifico (nell’ebraismo quasi nulla è lasciato al caso); non si sa perché gli uomini bacino un punto preciso dello stipite delle porte di casa quando lo varcano. Non si sa perché le donne nell’ebraismo ultraortodosso portino il fazzoletto o la parrucca, nonostante la scena in cui la parrucca di Esty scivola via nell’acqua sia commovente, bellissima e densa di significato.
La ricostruzione dei riti, dell’abbigliamento, delle usanze è praticamente perfetta: la scena del Mikveh, quella del matrimonio e tutte le scene newyorchesi sono rese con un rigore filologico ammirevole, acquisito anche grazie al coinvolgimento durante le riprese di ebrei appartenenti alla comunità Satmar di Brooklyn e di Eli Rosen, che nella serie interpreta la parte di Rav Yossele. A questo proposito, si veda il video dedicato al backstage e alla realizzazione della serie: non troverete nessuna risposta alle domande sopraelencate relative all’ebraismo chassidico, però spiega molto della realizzazione della serie.
Ma narrare e mostrare non è offrire conoscenza: Unorthodox offre un’esperienza estetica del chassidismo, non di conoscenza di esso. In Unorthodox si narra (bene) il chassidismo e lo si mostra con cura, ma il valore della serie non è la conoscenza dell’ebraismo ultraortodosso, bensì quello di un percorso di libertà individuale femminile.
Perfetta è la ricostruzione dello squallore crudele degli interni delle case, dove ovunque si vede l’assenza di passato come cristallizzazione di esso. La comunità Satmar discende pressoché interamente da sopravvissuti ai lager e alle persecuzioni razziali, la trasmissione di un lutto incessante, traspare come qualcosa che si ha dentro a prescindere da se stessi e del quale si riproduce l’assenza. Il chassidismo è un po’ così, è la riproduzione nell’oggi di un passato che si vivifica grazie a un’assenza che, proprio per questo, diventa presenza. Ma una presenza totalizzante, ideale, ossessiva e utopica, com’è appunto il chassidismo. L’assenza di intere generazioni di morti, troppi per poter davvero elaborare un lutto, l’assenza di radici che non possono perpetuarsi in vita se non si portano dentro un pezzettino della morte stessa. Quando si sopravvive a qualcosa si resta vivi, è vero, ma quel qualcosa non passa: la sopravvivenza è vivere con qualcosa che continua a scorrere sotto alla vita presente.
La serie è tratta in parte dall’autobiografia di Deborah Feldman Unorthodox: The Scandalous Rejection of My Hasidic Roots (2012); tutte le scene collegate alla comunità di Brooklyn e alle sue dinamiche sono state raccontate (e vissute) in prima persona dalla Feldman, mentre la parte berlinese è opera d’invenzione. Nonostante la bravura dell’attore Jeff Wilbusch, l’inseguimento di Moishe, un po’ caricaturale e stereotipato in versione Mossad, fa vibrare in modo molto diverso le due sezioni della serie che, però, vengono magicamente unificate da quella meraviglia dei nostri tempi che è la lingua yiddish. Questo è il grande pregio di Unorthodox, l’“apriti sesamo” verso quel mondo nel quale veniamo introdotti, una lingua composita, cristallizzata, senza tempo, capace di essere la chiave più originale della serie Netflix.
Perché se secondo il Sefer yetzirà e anche per la Qabbalah, Dio ha creato l’universo a partire dalle lettere dell’alfabeto ebraico, in Unorthodox è la lingua yiddish che dà corpo, anima e vita alla cultura chassidica. In Unorthodox di colpo milioni di persone hanno la possibilità di ascoltare questa lingua e comprenderla grazie anche, è bene ricordarlo, a un immane lavoro di traduzione, e questa è una rivoluzione e una vera occasione di conoscenza. Una lingua difficilmente udibile per la rarità dei suoi parlanti, per la complessità della sua storia, rispecchiata nella sua spigolosa e controversa sonorità.
Perché se una cultura, anche la più misteriosa, senza tempo, come l’ebraismo chassidico può essere mostrata e narrata, una lingua può soltanto essere ascoltata. Ma, con questo, compiere un miracolo.
Riferimenti bibliografici
D. Feldman, Unorthodox: The Scandalous Rejection of My Hasidic Roots, Simon & Schuster, New York 2012.;
C. Potòk, Il mio nome è Asher Lev, Garzanti, Milano 2011.
Unorthodox. Ideatore: Anna Winger e Alexa Karolinski; regia: Maria Schrader; interpreti: Shira Haas, Jeff Wilbusch: Moishe Lefkovitch, Amit Rahav, Langston Uibel, Tamar Amit-Joseph, Alex Reid, Ronit Asheri, Yousef “Joe” Sweid; produzione: Real Film Berlin, Studio Airlift; origine: Germania; anno: 2020.