In questi giorni, la 41.ma edizione del Torino Film Festival dedica la prima retrospettiva integrale mai organizzata al cinema di Sergio Citti. Spesso considerato soltanto un epigono di Pier Paolo Pasolini, con cui collabora prima come consulente al linguaggio per i romanzi e i racconti ambientanti a Roma dallo scrittore, poi come dialoghista e sceneggiatore fin dal suo esordio cinematografico Accattone (1961), la critica e la storiografia italiana gli ha riconosciuto solo parzialmente uno statuto autoriale autonomo. La sua opera prima da regista, Ostia (1970), arriva infatti dopo un percorso decennale di scrittura e sperimentazione accanto a Pasolini, che lo coinvolge già dalla fine degli anni cinquanta in alcuni progetti di scrittura cinematografica per altri registi (Mauro Bolognini, Franco Rossi, fino all’esordio alla regia di Bernardo Bertolucci con La commare secca del 1962). Dopo la morte di Pasolini, ci si è interrogati in più occasioni sulla presenza e l’eredità dell’autore friulano nel cinema di Citti; tuttavia, sarebbe da indagare in modo complementare anche l’influenza di Citti nel cinema di Pasolini. Se la costruzione del dialetto romano nei film del secondo è per lo più opera del primo, le esperienze di scrittura e sul set accanto all’amico Paolo (come lo chiamava) rappresentano per Citti una palestra essenziale di sperimentazione. Tale processo di osservazione creativa culmina all’inizio del decennio successivo con la realizzazione di Ostia, e trova una sua autonomia di sguardo negli altri undici film che egli gira in carriera (di cui due progetti televisivi).

Citti scrive la sua opera prima assieme a Pasolini, che cura ciò che nei titoli di testa viene definita «supervisione tecnica e artistica». A guardare sia le locandine del film che la critica, Ostia viene promosso, venduto e recepito come un’opera più di Pasolini che di Citti. Tuttavia, nonostante si ponga in aperta continuità con l’immaginario pasoliniano, l’autore romano lo discute continuamente, rinegoziando un proprio sguardo e lavorando in chiave autoriflessiva sulla costruzione di un cinema dal forte carattere biografico. A ben vedere, la cifra ricorrente nel cinema di Citti è proprio la continua commistione tra comico e tragico; quella di Pasolini, invece, pur essendo contaminata dalla cultura popolare è sempre tesa verso un lirismo di natura fortemente drammatica. In aggiunta, se Pasolini è interessato alla ricerca del sublime nel profano, sempre a partire da uno sguardo profondamente borghese, Citti sembra allora più attento all’autenticità (e all’umanità) dei marginali e dei subalterni, costantemente raccontati con uno sguardo “interno”, spontaneamente sottoproletario. Se Pasolini è interessato alla periferia (come luogo, ma anche e soprattutto come condizione umana e sociale), una delle ambientazioni più ricorrenti in Citti è il litorale romano: un luogo liminale, uno spazio ambiguo in cui la spiaggia, il mare, e il cielo s’incontrano all’orizzonte dando vita a un set cinematografico naturale.

“Che ber sole, annamo a Ostia?” dice Monica (Anita Sanders) a Bandiera (Laurent Terzieff) e Rabbino  (Franco Citti) esattamente alla metà di Ostia. È la prima volta in assoluto che si nomina Ostia, il titolo del film, apparentemente con l’accezione di spiaggia. L’arrivo al mare dei tre personaggi è preceduto dai due racconti, in forma di flashback, prima dello stupro ai danni di Monica da parte del padre, poi del parricidio ad opera di Bandiera e Rabbino. Dopo la riemersione di due traumi congiunti, uno subìto (da Monica) e uno provocato (da Bandiera e Rabbino), non può che esserci il mare a purificare le rispettive anime. Ed ecco un ulteriore significato simbolico che sembra risiedere nell’Ostia del titolo: la confessione, il pentimento, l’eucarestia, e dunque la salvezza. Nell’introduzione alla riedizione della sceneggiatura di Ostia del 1993, pubblicata per la prima volta con Garzanti nel 1970, Ugo Casiraghi si interrogava sul significato del termine Ostia: «Una spiaggia, una bestemmia, il corpo di Cristo offerto in sacramento? Oppure le tre cose insieme, unite in una nuova trinità?». Si deve per primo a Claude Beylie, in una recensione del film pubblicata su “Cinéma 70”, la notazione sui tre possibili significati del titolo: il sacro, il profano, il mare. Forse, potremmo aggiungere, il mare di Ostia si situa esattamente in quello spazio di confine tra il sacro e il profano, in quel purgatorio tra la salvezza, la grazia, il paradiso e il peccato, l’omicidio, l’inferno.

A partire dall’esordio di Citti, così, inizia a diffondersi un’immagine negativa del litorale romano, l’avvio di un percorso che condurrà alla realizzazione di opere che identificheranno in Ostia una sorta di emblema del disagio sociale della periferia romana (si pensi, solo a titolo di esempio, al cinema di Claudio Caligari e, più recentemente, al franchise di Suburra). Ostia, così, non è più soltanto una delle tante periferie di Roma, o lo storico sbocco verso il mare della capitale, ma una periferia dell’esistenza dove i marginali e i subalterni vivono come fantasmi.

Dopo essere usciti di galera, Bandiera e Rabbino tornano in quella stessa spiaggia. La Fiat 1100 che li accompagna, si ferma in via dell’Idroscalo, proprio all’altezza del luogo in cui verrà massacrato Pier Paolo Pasolini cinque anni dopo. Dopo una breve gita al largo con Monica, al ritorno in spiaggia Rabbino non regge la gelosia e uccide a bastonate suo fratello Bandiera, reo di essersi approcciato alla donna. Monica, a quel punto, scompare – lasciandoci col dubbio che non sia mai esistita. All’alba, mentre i villeggianti appuntano i propri ombrelloni sulla spiaggia dell’Idroscalo piena di rifiuti e resti di animali, il corpo di Bandiera giace, quasi “sorvegliato” da Rabbino, invisibile agli occhi delle famiglie di bagnanti. Che siano loro, gli invisibili, i subalterni, a non esistere? La prefigurazione di quanto succederà nello stesso luogo al corpo di Pasolini, sceneggiatore e supervisore tecnico e artistico del film, ma soprattutto amico fraterno di Citti, è a dir poco inquietante. All’arrivo dei villeggianti, Rabbino non può che trascinare via il cadavere del fratello, e consegnare al mare la prova del fratricidio. Una panoramica a 180 gradi da sinistra a destra, che inizia dal mare, svela lentamente il paesaggio urbano di Ostia. Una Ostia inedita, vista dal mare come un mondo edificato dal cemento, che ribalta idealmente quell’immaginario balneare spensierato del cinema italiano dei decenni precedenti.

Lo stesso movimento, questa volta a 360 gradi, apre sette anni più tardi Casotto (1977), ambientato sulle vicine dune di Castelporziano. Una lunga, unica panoramica che, senza soluzione di continuità, collega idealmente il primo e il terzo film di Citti. La prima dal mare, la seconda dalla spiaggia, quasi il campo/controcampo l’una dell’altra. Dopo qualche inquadratura all’esterno, la macchina da presa entra in una cabina balneare vuota e silenziosa (è l’inizio della giornata, i bagnanti non sono ancora arrivati). Ancora una panoramica che illustra lo spazio scenico, ma è l’ultima. Il film ci dice che d’ora in avanti sarà quella l’ambientazione della vicenda: «Chi è dentro non guarda fuori – osserva Enrico Magrelli – e può uscire solo nel sogno» (si pensi alla scena onirica di Proietti con Catherine Deneuve). Il movimento di macchina e l’ambientazione balneare dei primi minuti vengono, così, smentite subito dopo dalla fissità della macchina da presa, dalla chiusura della vicenda nel Casotto, dallo spettacolo claustrofobico dell’umanità che lo abita.

Casotto è il primo film che Citti gira senza Pasolini. È il film che lo pone sotto la lente d’ingrandimento della critica, dopo il favore con cui erano stati accolti sia Ostia sia il suo secondo film Storie scellerate (1973): le due opere avevano colpito la critica per la loro barbara purezza, e in molti ebbero a rintracciarvi molto più che una semplice collaborazione di Pasolini. Il suo terzo film, però, sorprende per l’abbandono definitivo dell’eredità pasoliniana (si pensi alle scelte di regia, così diverse), per il tono (più vicino agli stilemi classici da commedia all’italiana – seppure qui declinati in chiave grottesca, quasi da commedia erotica – più che al lirismo cui è votato il suo “maestro”) e per l’attenzione nei confronti della dimensione produttiva (in particolare la scelta di girare un film in mono-location).

Giandomenico Curi osserva su “Filmcritica” (la testata che più di altre recensisce, supporta e si fa garante, in questi anni, del suo cinema), che Citti «rinuncia a girare, a scegliere, a montare», testimoniando una vera e propria «paura di fare l’autore». Citti mette così in scena un film dalla forte valenza anti-narrativa – un film in cui, di fatto, non accade nulla. Nell’apparente assenza di narrazione vi è però un ritmo e una struttura fluida data, tra le altre cose, dalla scrittura di Vincenzo Cerami. Se è vero, come sosteneva il co-sceneggiatore, che la protagonista del film è la grande porta cigolante che, aprendosi e chiudendosi cadenza il ritmo dell’azione e si pone come limite e soglia per l’ingresso in scena dei personaggi e delle loro piccole storie, potremmo dire allora che il grande assente del film è al di fuori di quella porta: è il mare, la spiaggia, sempre evocati ma mai visibili se non in quella panoramica iniziale e nei rumori di sottofondo (i gabbiani e le onde in lontananza) che accompagnano i dialoghi; ma è anche la morte, prima di Bandiera e poi di Pasolini, che rendono quel luogo non più rappresentabile, trasformando Casotto in un film (sul) fuori campo.

Ed è così che la soggettiva finale di Franco Citti dal mare alla costa in Ostia (Ostia vista dal mare) e lo sguardo iniziale di Ninetto Davoli dalla costa al mare in Casotto (il mare visto da Ostia), si ricongiungono nella negazione stessa della rappresentabilità di quel luogo, ormai reso funereo prima dal cinema e poi dalla realtà. Sono due sguardi dei due attori più pasoliniani in assoluto, girati dal suo collaboratore più stretto, sul luogo in cui viene prima prefigurata (Ostia) e poi riflessa (Casotto) la morte di Pasolini.

Se Ostia, per certi versi, aveva negato e ribaltato l’immaginario balneare del neorealismo rosa e della commedia all’italiana, Casotto lo complica ulteriormente, aprendo un dialogo diretto con quel tipo di cinema. Non a caso, Citti dirà di aver preso l’idea di Casotto dal prototipo del genere del beach movie all’italiana, ovvero Domenica d’agosto (1950) di Luciano Emmer. Tuttavia, di quei giovani amori, di quell’ottimismo non resta più niente. Ciò che nel film di Emmer, come osserva Christian Uva, «si faceva metafora di libertà e di speranza in un avvenire radioso», nell’opera di Citti «si ribalta nel suo esatto contrario, in una situazione chiusa e limitata» dalle quattro mura claustrofobiche della cabina balneare. Insomma: il vitalismo e la spensieratezza di Emmer lasciano spazio al cinismo e al grottesco di Citti, che in Casotto complica e capovolge l’immaginario pasoliniano della sua opera prima. Ed ecco, così, che nel momento in cui apre un dialogo con quel tipo di cinema, apparentemente così distante da Citti, Casotto segna anche il definitivo «tramonto della condizione balneare», per dirla ancora con Uva.

Insomma, se in Ostia il mare è ancora simbolo di vita e salvezza (per cui, come dice Citti, «il vero morto è il fratello che rimane solo, non quello che viene gettato in mare sotto forma di cadavere»), allora la spiaggia dell’Idroscalo è soprattutto luogo di relitti, rifiuti e cadaveri (da Bandiera a Pasolini). Così, se nel primo film il litorale romano diventa quell’ideale terra di confine tra la vita e la morte, la sua stessa negazione e invisibilità, in Casotto, è sinonimo dell’irrappresentabile post-pasoliniano.

Cinque anni dopo, in Amore tossico (Caligari, 1983), in uno dei pochi momenti di ravvedimento che stanno conducendo inesorabilmente i protagonisti verso la morte, Michela dice a Cesare: «Viviamo a due metri dal mare e quest’anno è la prima volta che ci veniamo». Anche in questo caso, il mare è simbolo di vita, unica possibilità di redenzione dai peccati. Idealmente, la morte di Bandiera sulla spiaggia dell’Idroscalo e l’overdose di Michela sotto al monumento a Pasolini hanno nel mezzo proprio l’omicidio del poeta e regista friulano. Sullo stesso luogo delle morti cinematografiche di Bandiera e Michela, e di quella reale di Pasolini, si recherà nel 1993, in vespa, Nanni Moretti, in un ideale pellegrinaggio sui luoghi della morte del regista friulano nel primo episodio di Caro Diario. Quel lido che si estende dal nord dell’Idroscalo al sud di Castelporziano, incastonato nell’immaginario proprio da Ostia e Casotto. Ed è lì che Citti, forse simbolicamente, deciderà di vivere gli ultimi anni della sua vita: sul litorale romano, davanti al mare e alla spiaggia, vicino al ricordo dell’amico Paolo. La carriera di Sergio Citti, e per certi versi anche la sua vita, inizia a finisce proprio a Ostia.

Riferimenti bibliografici
M. Argentieri, Casotto, in “Cinemasessanta”, 119, gennaio-febbraio 1978.
C. Beylie, La deuxième fleuur, in “Cinema ’70”, 151, dicembre 1970.
U. Casiraghi, Introduzione, in Pier Paolo Pasolini, Accattone. Mamma Roma. Ostia, Garzanti, Milano 1993.
G. Curi, Casotto, in “Filmcritica”, 278, novembre 1977.
E. Magrelli, Spettacolo come assenza, in “Filmcritica”, 282, febbraio 1978.
M. Paganelli, Conversazione con Sergio Citti, in “Filmcritica”, 1978.
M. Pollone, C. Taricano, a cura di, Sergio Citti. La poesia scellerata del cinema, Edizioni Sabinae, Roma 2023.
C. Uva, L’ultima spiaggia. Rive e derive del cinema italiano, Marsilio, Venezia 2021.

Sergio Citti, Roma 1933 – Lido di Ostia 2005.

Share