Non è forse un caso che il film kolossal che celebra in una chiave atipica il mito della fondazione della città eterna e la serie tv che ne racconta il suo più inarrestabile declino abbiano lo stesso attore protagonista, Alessandro Borghi. E non è forse un caso che entrambe le opere tentino di restituire, in modi completamente diversi, uno sguardo su Roma, città da costruire e da governare, che diviene l’immagine dell’Italia di oggi. Attraverso film e storie molto diverse tra loro – pensiamo anche al caso di Sulla mia pelle – Borghi diventa come un corpo-medium, in cui si incarnano le ingiustizie, le perversioni, le paure e i desideri del nostro spazio-tempo, quelle contraddizioni che sembrano inafferrabili, e dunque inelaborabili, attraverso altri tipi di discorsività, prima fra tutte quella della politica. Come a dire: il cinema inteso nelle sue più ampie accezioni e nelle sue diverse derivazioni, è oggi, forse più che nel nostro recente passato, un luogo cruciale per l’elaborazione di sentimenti collettivi. E questo è probabilmente il motivo di maggiore interesse della seconda stagione di Suburra – La serie.
Sotto molti aspetti, infatti, la nuova produzione di Netflix sembra aggiungere poco a quel momento estremamente dinamico che le serie tv stanno vivendo anche in Italia. Fin dalla prima stagione, o più propriamente fin dalla sua genesi, Suburra si colloca perfettamente in continuità rispetto a quelle serie che hanno segnato l’arrivo anche in Italia della cosiddetta tv complessa, ovvero Romanzo Criminale – La serie, prima, e Gomorra – La serie dopo. Tutte e tre queste opere condividono quel processo di rimediazione che porta all’evoluzione transmediale del racconto, dalla forma romanzo (nel caso di Romanzo criminale e Suburra, si tratta anche dello stesso autore De Cataldo) a quella seriale, passando per la sala cinematografica – e il rapporto tra letteratura e serie tv sembra essere una chiave di volta decisiva per comprendere lo sviluppo della serialità italiana, come confermano il successo de Il commissario Montalbano, ma anche l’imminente messa in onda de Il nome della rosa. In tutti e tre i casi ci troviamo di fronte al racconto della criminalità organizzata e dunque a storie dominate da difficult men (Martin) e da personaggi femminili inaspettati, intorno a cui si costruiscono mondi in cui il potere e il desiderio di riconoscimento mettono in scacco qualsiasi altra forma di ethos.
Suburra – La serie aderisce come da manuale, se ce ne fosse uno, a questo modello produttivo e creativo transmediale, ormai ben assimilato e consolidato nell’ambito della nostra produzione televisiva recente; rispetto alla costruzione narrativa delle serie che lo hanno preceduto non presenta delle specificità o qualità intrinseche. Perde sicuramente il tratto freddo e sospeso tipico dell’action movie di Sollima, che caratterizzava il film, in favore di una regia che risulta più sottomessa allo svolgersi delle vicende in senso stretto.
Non si mette in dialogo con la decadenza romantica di Romanzo criminale – La serie, che, come è noto, è stata la prima, in Italia, ad aver alimentato il culto 2.0 di personaggi ibridi, diventati poi iconici. Né aspira a quella minuziosa costruzione di un mondo parallelo, completamente chiuso e impermeabile a qualunque “fuori”, che è Gomorra. Anzi, dalla serie di Sollima mutua quelli che potremmo definire dei veri e propri topoi serial-criminali: lo scontro generazionale (i giovani contro il vecchio Samurai), la fratellanza interfamiliare (i tre giovani criminali hanno ucciso ognuno il consanguineo di un altro, ma restano uniti nella loro sete di rivalsa), il difficile rapporto con la figura paterna (che accomuna tutti e tre i giovani protagonisti). Suburra – La serie scorre e si lascia vedere senza fatica e senza grandi scosse o sorprese per lo spettatore (fatta eccezione, forse, per la scelta di Spadino che sacrifica l’amore vero in nome del potere che è lì a portata di mano). E, tuttavia, a questo spettatore resta un senso di profonda inquietudine. Perché?
L’elemento di originalità della serie sta nel rapporto strettissimo con il nostro presente, con le vicende, gli scandali e i paradossi che tutti i giorni la cronaca ci presenta. Se Romanzo criminale raccontava la Roma sul finire degli anni ’70, così vivida eppure così lontana, e Gomorra – La serie un mondo fortemente connotato geograficamente, ma talmente sospeso temporalmente da sembrare eterno nella sua intrinseca tragicità, Suburra racconta la Roma (e l’Italia) di oggi, quella che incontriamo tutti i giorni nei discorsi, reali o virtuali che siano, che cercano di ricostruire il senso di una città e di un paese totalmente smarriti.
Ma ciò che più inquieta è che, in questa restituzione serializzata e drammatizzata delle dinamiche e delle forze di potere che attraversano la penisola tramite il suo centro nevralgico che è la capitale, nella riduttività schematica di certe ricostruzioni, il presente viene raccontato come se in qualche modo ne fossimo già fuori, come se avessimo già guadagnato una distanza, una prospettiva storica che riesce a mettere in ordine, o quantomeno in uno dei tanti ordini possibili, quella confusione e quel disorientamento che in realtà popolano ancora i nostri discorsi sull’oggi. Suburra – La serie ci restituisce una realtà già masticata e digerita, pronta per essere superata. Ma da cosa? Cosa viene dopo la paura utilizzata per accendere la rabbia del popolo e la perdita di qualsiasi valore morale, a prescindere dalla direzione politica a cui volgiamo lo sguardo (e le nostre preferenze elettorali)?
L’unica risposta a questa domanda è quella del racconto. Dopo c’è la guerra per l’impero dei giovani criminali, l’impero di Aureliano e Spadino, che si basa su un’inaspettata amicizia (celebrata nell’ultimo episodio), votata ad un fine ben più alto delle differenze e dei pregiudizi che prima li separavano, quello dell’affermazione e dell’autodeterminazione di sé. La serie si regge totalmente sulla capacità di questi due personaggi (e di questi due interpreti) di cambiare (“La mia vita è cambiata e tu ci sei sempre stato”), di lasciarsi attraversare da circostanze a loro non favorevoli, scoprendo che solo insieme possono aspirare a ribaltarle. Una spinta fondativa ed ancestrale, radicale ed efferata, che li unisce nella lotta per un potere che è ancora tutto da conquistare. Dopo il declino c’è di nuovo il mito. Questa è l’unica risposta che Suburra ci può dare e che forse, in fondo, ci consola. Ma se è vero che le serie sono la reiterazione di un nucleo tematico che ritorna, mai identico a se stesso, allora questo equilibrio non è destinato a durare. La domanda resta e la risposta deve essere cercata altrove: cosa viene dopo?
Riferimenti bibliografici
B. Martin, Difficult Men. Dai Soprano a Breaking Bad, gli antieroi delle serie tv, Minimum Fax, Milano 2018.