Tra il 2017 e il 2018, ovvero nei primi due anni dell’amministrazione Trump, gli Stati Uniti d’America hanno perseguito quella che viene definita politica di separazione delle famiglie, nell’ambito di un più ampio programma di politiche sull’immigrazione, denominato “tolleranza zero”. Una volta superato il confine americano le famiglie, provenienti dal Centro e Sud America, che viaggiavano con bambini venivano separate: i bambini inseriti nel programma di tutela di minori non accompagnati (salvo che loro in realtà erano accompagnati) e i genitori rinviati a processo, il più delle volte rimpatriati. Senza i figli. Errol Morris in Separated ricostruisce questa vicenda, che si può senz’altro annoverare tra le pagine più crudeli della storia della più importante democrazia occidentale.
Come accade in altri lavori di Morris, il film si costruisce attraverso molteplici tracce narrative (e visive). Le interviste ai protagonisti della vicenda – tra cui Jacob Soboroff, giornalista di NBC news e autore del libro di cui il film è un adattamento, e Jonathan White responsabile del programma di tutela per i minori non accompagnati – si alternano a materiale televisivo, come conferenze stampa e immagini di repertorio, alla ricostruzione grafica della corrispondenze via e-mail tra i vari protagonisti politici e dell’amministrazione federale, e al racconto di finzione del viaggio del piccolo Diego e di sua mamma. Se quest’ultima è forse la traccia meno riuscita, perché particolarmente didascalica e a tratti estetizzante, ciò che più colpisce in realtà è quello che il regista decide di non farci vedere. Sullo schermo nero leggiamo il testo e ascoltiamo il suono di un audio “rubato” in una struttura in cui venivano ospitati bambini separati dai genitori: a chi piangeva, cercando la mamma o il papà, gli agenti rispondevano con scherno e derisione. Un altro momento decisivo che Morris sceglie di non farci vedere è quello della cattura di Diego e di sua mamma, appena attraversato il confine. Morris sceglie la camera termica, quasi come a enfatizzare uno spartiacque in questa ricostruzione finta, ma comune a migliaia di immigrati, in cui da persone ci trasforma in corpi privati di qualsiasi dignità e umanità. Tuttavia ciò che più colpisce è l’inizio del film, quando a schermo nero si alternano le voci degli ultimi tre presidenti degli Stati Uniti d’America, dal più recente, Biden, al più vecchio, Obama, passando per Trump e tutti e tre professano la dottrina della tolleranza zero, in relazione alla necessità di mettere al sicuro i confini del paese. La crudeltà e la disumanità che si concentrano nella politica di separazione dei figli dalle proprie madri e dai propri padri è l’apice di un processo di respingimento ed espulsione degli immigrati, che sembra non avere colore politico, un processo profondo e particolarmente erosivo, in cui non c’è una lotta tra buoni e cattivi, quanto una sistematica e implacabile spinta alla disumanizzazione, innanzitutto di noi stessi nel momento in cui si decide di privare dei propri diritti fondamentali chi consideriamo estraneo.
In questo processo i media svolgono un ruolo specifico. Tutta l’inchiesta di Jacob Soboroff che farà conoscere la politica di separazione e che porterà poi ad una forte opposizione popolare, dinanzi alla quale Trump dovrà firmare un ordine esecutivo che pone fine a tale prassi, ha inizio quando sono gli stessi promotori della politica tolleranza zero ad invitare i giornalisti nelle strutture di “accoglienza” dei minori. La motivazione non è immediata ma il documentario ce la spiega ripetutamente: l’idea era di far sapere a chi si apprestava a mettersi in viaggio per oltrepassare il confine che all’arrivo i bambini sarebbero stati separati dai genitori. La copertura mediatica di quell’atto di pura crudeltà doveva funzionare come deterrente ad intraprendere il viaggio. In altre parole, laddove il confine fisico non riusciva a frenare la spinta vitale di chi parte con la speranza di un futuro migliore, si voleva creare un confine mediale, fatto di paura e terrore. Ancora una volta, vita e media, corpi e dispositivi dell’immagine si intrecciano, questa volta però generando un effetto imprevisto: la paura e il terrore che avrebbero dovuto fermare gli immigrati, in realtà hanno mobilitato gli americani, che non si sono riconosciuti in quelle immagini dei bambini sottratti ai genitori chiusi in delle gabbie.
Ma quanto tempo dura questo effetto? La risposta a questa domanda è all’origine del libro di Soboroff, e anche del documentario di Morris. Come dichiara il giornalista di NBC la gente non ha voglia di approfondire, di sapere di più. Passata l’indignazione, l’intrattenimento informativo si sposta su altro, in quel flusso ininterrotto che è la rete, in cui c’è sempre meno posto per il racconto. Separated partecipa a questo stesso flusso, a tratti ricalcandone l’estetica, con l’obiettivo però di spiegare, quasi ossessivamente, le dinamiche politiche e di potere che hanno portato ad una vera e propria barbarie, di rimettere insieme i pezzi, fatti di immagini e parole, per dare loro un senso, che vada oltre la mera impression del momento. Forse sempre più in futuro il cinema potrà e dovrà svolgere anche questo compito.
Separated. Regia: Errol Morris; sceneggiatura: Alfred Gough, Miles Millar; fotografia: Igor Martinović; montaggio: Steven Hathaway; musiche: Paul Leonard-Morgan; interpreti: Gabriela Cartol, Diego Armando, Lara Lagunes – Jonathan White, Allyn Sualog, Jacob Soboroff, Scott Lloyd, Elaine Duke, Lee Gelernt; produzione: Fourth Floor Productions, NBC News Studios, Participant; origine: USA, Messico; durata: 93’; anno: 2024.