“Ma è così difficile fare i film in Italia?”. La domanda è contenuta nella lettera aperta che Valerio Mastrandrea scrive su Il Messaggero nel 2014, indirizzata a Martin Scorsese, e intesa a mobilitare possibili supporti per la produzione di Non essere cattivo (2015), di Claudio Caligari. Se c’è un aldilà sono fottuto – Vita e cinema di Claudio Caligari, di Simone Isola e Fausto Trombetta, apre con la lettura di quella lettera, e prosegue rievocando la lavorazione del terzo e ultimo film (prove, casting, backstage) del regista. Ne ricostruisce la figura attraverso le testimonianze degli attori di quello (Luca Marinelli, Alessandro Borghi, Silvia D’Amico, Roberta Mattei), di altri (Mastrandrea, Marco Giallini, Emanuel Bevilacqua), di Michela Mioni e “Er Donna” (interpreti di Amore tossico), della madre, di amici e collaboratori: il direttore della fotografia Maurizio Calvesi, ancora Mastrandrea (quasi acting coach e “aiuto regista aggiunto” di Non essere cattivo); Marco Risi produttore de L’odore della notte, secondo lavoro seguito dopo quindici anni a Amore tossico (1983), realizzato grazie al contributo di Marco Ferreri.

Quindici anni tra il primo lungo (ma c’erano stati, prima, anche dei documentari: La parte bassa, Perché droga, che restituivano la dissoluzione dei movimenti, delle fantasie al potere, gioventù annichilite nel baratro delle tossicodipendenze, “unico consumo possibile” nelle periferie, diceva il regista intervistato in una trasmissione tv) e il secondo. E diciassette (1998-2015) prima di Non essere cattivo. Con in mezzo una produzione sterminata di film solidamente pensati, tenacemente inseguiti, di sceneggiature fatte, finite e puntualmente rifiutate, porte perennemente chiuse e supporti negati. Anche a film quasi avviati e in anticipo su tematiche in auge negli anni a venire, come Anni rapaci, sull’ascesa delle ‘ndrine calabresi nell’Italia settentrionale.

E allora, è così difficile fare film in Italia? Sì, anche bypassando la sistematica sfiducia e paura del grande produttore di turno, anche appoggiandosi a piccole società, o realizzando, in indipendenza pressoché totale, con la più piccola e spartana troupe, del cinema grande. Che è forse ancora più difficile, poi però, far circuitare: d’altronde, di quanto splendido, vario, inventivo cinema italiano, grossomodo degli ultimi venti anni, la distribuzione – e talora anche una critica declinatasi solo come orientamento al consumatore (non più, quindi, spettatore) solo per ciò che passa in sala o distratta da altri oggetti mediali – non ha tenuto spesso alcun conto?

Sì, è difficile, anche, se l’Italia non sembra più lei. Perché quegli ’80-’90, in cui Caligari non è mai messo nella condizione di lavorare, vedono il dilatarsi della catastrofe antropologica intuita pochi anni prima da Pasolini, col genocidio e la scomparsa delle culture particolari italiane (dopo quella delle lucciole) sotto i colpi dell’omologazione e del benessere coatto. Posticcio, almeno quanto l’immagine del Paese sempre più “televisionizzata”, annacquata e irriconoscibile, che contagia un cinema che spesso di certa TV replicava modelli produttivi e d’immaginario, di benissimo (e sempre troppo) scritti e laccati internucci borghesi.

A distanza siderale era invece il sanguigno, quasi scorsesiano prima maniera (Mean streets uno dei suoi punti di riferimento) e soprattutto post-pasoliniano, mondo di Caligari. Che al suo esordio nel lungo riesce a fare un film che vale come documento e che non è però un documentario, scritto e solidamente narrativo, e innervato della flagranza dei suoi non-attori presi da un SerT e portati al sole violento di Ostia o Centocelle; e poi gira un noir (se ne contano – o se ne contavano, allora – pochi, in Italia) di umbratili e livide luci, dove la coscienza di classe del mondo borgataro s’è mutata in generica rabbia, inquietudine, per una rivalsa che si sa impossibile. Un cinema impegnato a registrare lo svenarsi di intere generazioni – di poco successive a quelle dei movimenti – nell’eroina (Amore tossico); le tensioni invisibili eppure in atto nelle periferie-polveriere i cui abitanti, agognando status symbol di un benessere irrevocabilmente lontano, svaligiano le ville del ceto alto di Roma Nord (L’odore della notte); una storia degli ultimi ragazzi di vita a metà degli anni ’90 (Non essere cattivo).

Nel misurarsi faccia a faccia con la catastrofe in fieri, antropologica e sociale, forse più di altri e a dispetto dei pochi titoli, il cinema di Caligari è stato diretto, o v’era immerso. Se la portava tutta addosso, o ne recava le stigmate, la pativa come certi personaggi suoi che il documentario di Isola e Trombetta ci mostra nel comune ritrovarsi a braccia spalancate, spalle a terra e sguardo al cielo (come Cesare in Non essere cattivo). E così muoiono (il Cesare di Amore tossico, riverso a un angolo di strada, “seccato perché coreva”, come il Belmondo di Fino all’ultimo respiro, e che non fa in tempo a dire come Accattone “Mo’ sto bene”) o vengono colpiti alle spalle con una cristica ferita all’altezza delle costole (Remo del secondo lungometraggio).

Pativa, insieme, il mutarsi dell’antropologia anche del cinema stesso, il suo farsi brutta televisione, l’inerzia sparagnina e cinica di un sistema produttivo che in anni di poco precedenti spingeva altri a coltivare soluzioni autarchiche (1976 datava infatti il primo lungo in super8 di Moretti, il quale, in un filmato di repertorio tra altri inserito in Se c’è un aldilà sono fottuto, vediamo conversare con Caligari di film bloccati allo stadio di progetto).

Si portava, Caligari, il suo rigore. È su questa qualità che i più degli intervistati nel documentario, pressoché unanimi, mettono l’accento: la coscienza sicura della dignità del proprio lavoro che non ammette compromessi. Sul set di quello che sapeva sarebbe stato il suo ultimo film, Caligari è attorniato da chi, sodale, sa del suo valore, e cospira affinché il film possa vedere la luce. Lui perno, lui centro, lui regista dalla cui visione gli altri pendono per quanto trasmessa a voce fatta flebile dal cancro che se lo porterà via a montaggio appena finito.

Ne emerge una rievocazione che non può non essere commossa, tanto si vuole vicina, aderente, con ogni mezzo possibile (backstage, testimonianze, estratti dai film, servizi televisivi e interviste, dichiarazioni degli attori e collaboratori) a qualcuno che se n’è andato, e tanto è fatta “dal di dentro” (Simone Isola con Kimerafilm è stato produttore di Non essere cattivo). E conclude con lo scroscio di applausi veneziani che salutano l’ultimo film, il suo autore scomparso, forse anche lui colpito alle spalle. Dicono addio, plaudenti, al cinema che avrebbe potuto fare e che abbiamo perso. Non però al rigore e al coraggio del suo autore che in modo tanto accorato il film cerca di restituire col ricordo, non all’umanità genuina del suo cinema. Che resiste, a dispetto delle catastrofi di ogni mutazione antropologica, e ci chiede di farsi rivedere.

Riferimenti bibliografici
P.P. Pasolini, Lettere luterane, Garzanti, Milano 2015.

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