Si sono messi in ascolto, Matteo Bonazzi, Federico Leoni, Alessandra Pantano, Gianluca Solla e Silvia Vizzardelli. Della domanda inascoltata che proviene dalle nostre scuole. A caccia dei fantasmi che attraversano la vita quotidiana degli insegnanti e degli studenti, di chi ogni giorno prova a (ri)abitare la scuola

Ma qual è questa domanda fondamentale? Da dove viene? La sua scaturigine è un sogno, è il precipitato dell’inconscio scolastico, per così dire. Dà forma a quest’interrogativo Matteo Bonazzi:

Che cosa ci spinge a ritornare a scuola (…) E che cosa ci trattiene dal lasciarla? A perpetuare questa pratica che ci ha visti studenti, immaginando che possa diventare per noi una professione? (Pantano, Solla 2023, p. 21). 

È un’esperienza che, da insegnante, rivivo ogni anno, ogni mattina, sentendo la differenza nella ripetizione. Rinnovo l’incontro, quello «che ci ha segnati, il famoso primo giorno di scuola» (ivi, p. 22). E corro verso la fine, quella che è implicita in ogni cammino, con ogni classe, in tutti i cicli che si avvicendano, quella fine che mi fa desiderare il ritorno, di poter dire: ancora. Vedere gli studenti che se ne vanno, ed essere capace di restare, di «dimenticare come finisce» (ivi, p. 23) per poter ricominciare.

Ci vorrebbe un tempo ulteriore, un tempo supplementare, ma questo tempo infinito, per fare scuola, “per essere a scuola”, lo si può solo sognare. È il tempo in cui smettiamo di credere di poter trasmettere qualcosa, e facciamo un passo di lato, per permettere a chi ci sta davanti di entrare nella propria casa dei fantasmi, di interrogare il proprio desiderio e di sprigionarlo. Se «tra me e l’altro c’è sempre dell’Altro» (ivi, p. 30), ciò significa che non possiamo illuderci che si tratti solo del “programma”, della materia che stiamo insegnando, delle conoscenze o delle competenze, che sono sempre il pretesto per dell’Altro. Il tempo in-finito della scuola, il tempo supplementare, sognato, delle aule-fantasma, in cui sale in cattedra il desiderio degli studenti, è quello in cui l’insegnante si mette di lato, rinuncia a trasmettere una lettera morta e fa germogliare dall’inconscio la parola viva. È viva la parola dello studente che si interroga sul proprio enigma, sul sapere non ancora saputo: Chi sono io? Cosa voglio?, sono le domande indirizzate verso ciò che in me è più di me stesso. È questa la scintilla dello studēre latino, lo studiare come “desiderare”, l’erotica dell’insegnamento di cui parla Massimo Recalcati nel suo prezioso saggio L’ora di lezione (Recalcati 2014).

Come ci ricorda Bonazzi, nella miniatura medievale in copertina del volume La Carte postale di Jacque Derrida, non è Platone che scrive l’insegnamento di Socrate, ma è Socrate a scrivere sotto dettatura di Platone. È l’allievo, è l’allieva, a poter dire il senso di ciò che abbiamo detto a lezione. Noi non trasmettiamo nulla. Ciò che abbiamo lasciato come insegnanti, lo scopriremo in un tempo futuro anteriore – il senso di ciò che avremo detto, potranno dirlo loro –, lo scopriranno, i nostri alunni e le nostre alunne, riscrivendo inconsciamente il nostro racconto

Mi riconosco quotidianamente in questo. La mia lettera è morta se non rivive nelle loro parole, se non mi fanno parlare attraverso il loro desiderio di sapere. Noi siamo sempre supplenti, siamo sempre al posto dell’Altro, anzi, nel posto che l’Altro, lo studente, ci assegna (Pantano, Solla 2023, p. 35). L’enigma del desiderio, la risposta al Che vuoi?, è tutto qui: quale fantasma sarò stato per te, che sogno avrò incarnato? Se è l’allievo a dirmi cosa significo, cosa ho significato, per lui, per lei, è perché è sempre «l’Altro a dirmi ciò che avrò detto, sempre al di là di me» (ivi, p. 37).

L’etica dell’insegnamento va ripensata dunque radicalmente: non si tratta di trasmettere i nostri sogni, ma di farci supporto per il sogno dell’altro, di lasciare che l’Altro riponga in noi il suo sogno. Diventare un fantasma è la risposta all’enigma del desiderio dell’Altro, perché gli permette di attraversarci, di fare di noi la porta di accesso al mistero del proprio sogno, la via per accendere l’incanto. È il nostro fallimento, come nel caso del padre de La Strada di Cormac McCarthy, è la fine del nostro sogno a segnare l’inizio del sogno dell’altro. Per insegnare, dobbiamo, in qualche modo, rinunciare a farlo, lasciare spazio a quell’immenso non sapere, per dirla con Chandra Candiani, che innesca un altro sapere, enigmatico, irriducibile all’enunciato. Non conta, infatti, a scuola, cosa diciamo, conta piuttosto con quale voce parliamo.

Pensai che avrei voluto essere, in futuro, un insegnante, quando, ai tempi del liceo, vidi per la prima volta L’attimo fuggente, il celeberrimo film di Peter Weir, con Robin Williams nelle vesti del professor John Keating, un docente di letteratura anti-conformista, ribelle rispetto al rigido curricolo del collegio maschile di Welton. Keating invita i suoi allievi a seguire la propria strada, ad attraversare la vita riconoscendo l’unicità della propria voce. Al netto di tutti i bisogni e delle necessità dell’esistenza, Keating ricorda ai suoi alunni di non cedere sul proprio desiderio. Perché la poesia ha a che fare precisamente con il mistero del desiderio di ciascuno dei suoi allievi. E la voce del professore, mentre declama Whitman, mentre parla con la voce dell’Altro, li porta a pensare che ci sia in gioco qualcosa che li riguarda, a supporre che nel luogo del sapere (letterario, artistico, scientifico) vi sia qualcosa che li tocca in ciò che hanno di più intimo e di più estraneo, di più personale e di più alieno, di più vicino e di più lontano. È quello su cui scommette Keating, sul sapere inconscio dei suoi allievi, sull’ineffabile del loro desiderio.

Cosa possiamo fare per i nostri alunni e per le nostre alunne? Possiamo essere l’occasione, l’incontro che risveglia il loro fantasma inconscio. La nostra voce può fare segno verso quella meraviglia sulla quale il loro sguardo si fisserà, trovando quel dettaglio che è lì da sempre, ma che ogni volta sentiranno di avere aggiunto, contribuendo alla poesia del mondo col proprio verso. La poesia è sempre lì, un testo, ma diventa vita nel momento in cui le alunne e gli alunni la ascoltano e la rimettono in circolo, restituendola al sogno. Perché avvenga questo, ci vuole l’opera della meraviglia.

Quante volte abbiamo sentito degli insegnanti lamentarsi del fatto che i propri alunni fossero poco curiosi? O forse dà loro fastidio che siano troppo curiosi, inafferrabili? L’esperienza di venti e più fantasmi in un’aula, incluso quello dell’insegnante, è una tempesta e un arcobaleno di spiriti. E lo spirito, ci ricorda Alessandra Pantano, «non è una cera molle. È invece una sostanza reattiva. Non può non esserci il desiderio di saperne, di saperne meglio e diversamente: la curiosità c’è ed è immensa» (ivi, p. 49). Curiosità e immensità, con questo abbiamo a che fare ogni giorno, a scuola. E non dobbiamo stimolarla, la curiosità. Così come con l’amore, se si pretende di suscitarla, appassisce e muore. Bisogna solo creare a questa immensa curiosità l’ambiente adatto per fare la propria magia. Non ci riusciremo mai con le tecniche o le metodologie, per quanto utili e ben congegnate. È nel preciso momento in cui le lasciamo andare, che l’immenso entra dalla finestra e diventa un’ora di lezione.

Non si tratta, ci rammenta Gianluca Solla, di sforzarsi di tenere gli allievi e le allieve concentrati (“Attenti, ragazzi!”). L’attenzione, compagna di banco della curiosità, è legata all’attesa, al tendere verso qualcosa, al desiderare qualcosa, tanto da prendersene cura (per riprendere con Solla la tesi di Bernard Stiegler), andando alla rovescia rispetto all’affanno da iper-stimolazione post-moderna, che ha invaso, ovviamente, anche la scuola – è la tragica lezione di Mark Fisher. L’attenzione non coincide col tempo della performance, ma è il tempo di un’attesa, è la preparazione a un «“desiderio” di infinito: preparazione paradossale perché per l’infinito non c’è ovviamente nessuna preparazione possibile» (ivi, p. 88).

Forse nient’altro che questo potremmo fare a scuola con i nostri studenti: attendere insieme l’infinito, per sottrarre le parole e le cose al consumo e restituirle all’inesauribilità del desiderio. A scuola potremmo trovare, al di qua e al di là del “mordi e fuggi” del mondo ipermoderno con le sue richieste incessanti e pressanti, il tempo di aspettare l’infinito, il modo di abitare il tempo in un altro modo. La scuola è il luogo dove immaginare un altro rapporto con il futuro, dove sentire che il futuro non tanto e non solo va progettato, va soprattutto sognato.

Riferimenti bibliografici
M. Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi, Torino 2014.

Alessandra Pantano, Gianluca Solla, a cura di, Scuola. Filosofia di un mondo, Cronopio, Napoli 2023.

Tags     insegnanti, scuola, sognare
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