La scomparsa di Cormac McCarthy, avvenuta lo scorso 13 giugno nell’abitazione di Santa Fe (New Mexico) dove lo scrittore risiedeva dai primi anni Duemila, ha scatenato un flusso incessante di elogi e congedi commossi. Su riviste, blog e social network, oltre che sulle pagine culturali dei quotidiani, in molti hanno sentito il bisogno di rendere omaggio a quello che è oggi unanimemente riconosciuto tra gli autori statunitensi più rilevanti della nostra epoca. In Italia la notizia è arrivata all’indomani delle prime recensioni de Il passeggero, uscito a maggio per i tipi di Einaudi nella brillante traduzione di Maurizia Balmelli (negli Stati Uniti era stato pubblicato a ottobre del 2022, seguito a distanza di un mese dal romanzo gemello, Stella Maris, programmato in Italia per settembre).

A ben guardare, all’uscita il libro aveva suscitato giudizi contrastanti: negli USA un articolo sul “New York Times” definiva The Passenger «lungi dall’essere il miglior lavoro di McCarthy»; nel Regno Unito un giornalista dello “Spectator” lo descriveva come «un relitto affondato» composto da «meditazioni sconclusionate su psicosi, teoria delle stringhe e l’assassinio di JFK», mentre in occasione della pubblicazione italiana una recensione su “Repubblica” lo considerava «una collana di pietre preziose e bottoni ordinari», un «rosario di preghiere scombinate» che costituisce «il testamento perduto di un uomo già distante dall’affanno di sopravvivere». Eppure, è proprio tra le pagine di questo romanzo che dobbiamo immergerci per provare ad afferrare la cifra più autentica della scrittura di McCarthy.

All’inizio del Passeggero, lo spiantato truffatore-filosofo Long John Sheddan presenta così il protagonista Bobby Western, sommozzatore in grado di recuperare «qualunque cosa sia andata persa»: «Io ci andrei piano», avverte. «Forse avrai notato che il nostro è un po’ reticente. È vero che fa lavori subacquei pericolosi per un lauto compenso, ma è anche vero che la profondità lo spaventa. Be’, dirai tu, ha superato le sue paure. Manco per niente. S’inabissa in un’oscurità che è del tutto incapace di afferrare. Oscurità e un freddo paralizzante» (McCarthy 2023, p. 29). Queste parole sembrano descrivere perfettamente lo stesso McCarthy, che non ha mai smesso di tuffarsi negli abissi più reconditi dell’animo umano, restando immerso sempre più a lungo nelle gelide profondità della psiche o nei fondali limacciosi e inquinati della cultura contemporanea, nel tentativo di riportare in superficie qualche frammento che riuscisse a spiegare, o quantomeno a giustificare, la nostra permanenza sulla terra.

Che si tratti del cadavere sepolto nel pozzo al centro del suo romanzo d’esordio, Il guardiano del frutteto; della donna morta assiderata in un’automobile e rinvenuta dal necrofilo Lester Ballard in Figlio di Dio; del corpo putrescente che Suttree e il figlio del defunto gettano di notte nel fiume per vederselo riaffiorare in superficie «con tutte le sue catene» («I padri sono così», commenta caustico il protagonista di Suttree, McCarthy 2009, p. 493); dei narcotrafficanti crivellati di pallottole in cui si imbatte Llewelyn Moss mentre è a caccia di antilopi in Non è un paese per vecchi; o ancora dei “morti viventi” prigionieri nella cantina che padre e figlio scoperchiano nella scena più terrificante de La strada, la narrativa di McCarthy si configura come un’incessante e rischiosa missione immersiva di recupero, una ricerca archeologica – ed epistemologica – che nel riportare alla luce i relitti sommersi della civiltà occidentale – i cadaveri rimossi, gli orrori che la mente e la storia hanno cercato di dimenticare – genera ogni volta conseguenze tragiche.

Ora, però, tra i cadaveri nell’aereo inabissato che Bobby è chiamato a esplorare ne manca uno. Il mistero del passeggero scomparso non sarà mai svelato nel corso della narrazione, e forse è un bene perché, come afferma Long John alla fine del libro, «la verità del mondo costituisce una visione raccapricciante al punto da far impallidire le profezie del più funereo degli indovini che mai l’abbiano abitato» (McCarthy 2023, p. 379). Bobby ha un’idea diversa; studioso di fisica dalla mente geniale, ha abbandonato il dottorato quando ha capito che la fisica non può spiegare tutto: «non si può illustrare l’ignoto» (McCarthy 2023, p. 156), pensa, per poi arrivare alla conclusione che «in ultima analisi non c’è niente da sapere e nessuno per saperlo» (McCarthy 2023, p. 248).

In bilico tra due opzioni altrettanto agghiaccianti – il non-senso cosmico e l’orrore al centro dell’esistenza – i personaggi di McCarthy continuano a porsi interrogativi metafisici al cospetto di una natura indifferente e violenta e di un’umanità che, come fanno lo spietato omicida Chigurh di Non è un paese per vecchi e il giudice Holden di Meridiano di sangue, giustifica massacri e atrocità con la fredda logica di teorie filosofiche. Il problema epistemologico è da sempre al centro della poetica di McCarthy: come comprendere una realtà all’apparenza insensata e insensibile? e, soprattutto, come rappresentarla adeguatamente? La risposta data dallo scrittore statunitense, suggerisce Marco Petrelli nella sua importante monografia, è nello storytelling: «La narrazione, in virtù della capacità di collegare tra di loro le forme del reale all’interno di una struttura linguistica coerente, è lo strumento privilegiato di significazione» (Petrelli 2020, p. 18).

Di qui l’importanza delle storie, dei sogni, delle parabole che i personaggi raccontano di continuo – storie che riguardano loro stessi ma anche, e soprattutto, lo spazio geografico che abitano, il Tennessee delle prime e ultime opere, o il Southwest della Trilogia della frontiera, che ha garantito a McCarthy un grande successo di pubblico e la meritata fama internazionale. «Il luogo dell’interpretazione, tanto per i personaggi che per i lettori – conclude Petrelli – viene quindi in essere nell’interstizio creato dallo scarto tra il mondo e il modo nel quale esso viene rappresentato (e compreso) dagli uomini» (Petrelli 2020, p. 23).

In questo senso le opere di McCarthy costituiscono una cartografia cognitiva dell’umana esistenza, un repositorio di storie, personaggi, spazi, riflessioni e simboli che ci permette di ricostruire – e decostruire – non solo il secolo americano, com’è stato più volte affermato, ma l’intera storia dell’umanità.

«Un sipario si alza sul mondo occidentale», chiosa l’elusivo narratore di Suttree nel prologo del romanzo, introducendoci a un paesaggio primordiale e metafinzionale:

Una sottile pioggia di fuliggine, insetti morti e ossicini anonimi. Il pubblico siede avvolto in uno strato di polvere. Dentro le orbite svuotate del cranio dell’interlocutore un ragno dorme e le spoglie snodate del buffone impiccato dondolano tra voli di mosche, pendolo d’ossa in abiti variopinti. Creature a quattro zampe corrono avanti e indietro sulle tavole. Le forme più primitive sopravvivono (McCarthy 2009, p. 6).

Come si può veicolare questo non-luogo, questa Waste Land postmoderna? Nel corso della sua carriera McCarthy tenta varie strade, privilegiando il romanzo come forma espressiva ma non disdegnando approcci più visuali di storytelling come il teatro e il cinema. Anzi, come afferma Lee Clark Mitchell, collaborare con Hollywood ha influito sulla sua scrittura agevolando la «transizione graduale dai primi arabeschi, consapevolmente retorici, a narrazioni più enigmaticamente asciutte» (Mitchell 2019, p. 248).

Due dei suoi romanzi più famosi, Non è un paese per vecchi e Città della pianura, nascono come sceneggiature, mentre lavori scritti appositamente per il cinema come Il figlio del giardiniere e The Counselor sono diventati film di discreto successo. In aggiunta, McCarthy ha scritto due opere teatrali, Sunset Limited – definito «romanzo in forma drammatica» e adattato per il cinema da Tommy Lee Jones, che interpreta uno dei due personaggi insieme a Samuel L. Jackson – e The Stonemason, ancora inedito in Italia, forse per via della trama potenzialmente controversa. Un’altra sceneggiatura, Whales and Men, resta a tutt’oggi tra le carte dello scrittore, non essendo mai stata prodotta né pubblicata (anche se è facilmente reperibile online).

È un vero peccato, perché proprio in questo testo McCarthy ci propone una possibile via d’uscita dall’abisso, affidandola però agli animali: «Le balene ci hanno cambiato», afferma un personaggio, «e penso a loro, là fuori, di notte, nei loro infiniti spostamenti. Come se i loro attraversamenti e riattraversamenti avessero ricucito il mondo insieme». Nel 1986 McCarthy già presagiva i disastri dell’antropocene e aveva capito che la soluzione, se mai esiste, va cercata in una dimensione post-umana. I grandi scrittori sanno vedere avanti, colgono qualcosa del nostro tempo che noi non riusciamo ancora a mettere a fuoco, anticipando dinamiche che poi si riveleranno fondamentali. Ecco perché quando propongono un nuovo libro bisognerebbe “andarci piano”, come consiglia Long John Sheddan, valutando a fondo e con pazienza ciò che potrebbero aver rinvenuto, a caro prezzo, prima di sparire.

Riferimenti bibliografici
C. McCarthy, Il passeggero, trad. it. Maurizia Balmelli, Einaudi, Torino 2023.
Id., Suttree, trad. it. Maurizia Balmelli, Einaudi, Torino 2009.
C. Mitchell, Cinematic Adaptations, in Cormac McCarthy in Context, a cura di Steven Frye, Cambridge University Press, Cambridge 2019.
M. Petrelli, Paradiso in nero. Spazio e mito nella narrativa di Cormac McCarthy, Aracne, Roma 2020.

Cormac McCarthy, Providence 1933 – Santa Fe 2023.

Tags     America, Cormac McCarthy
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