Il problema del linguaggio, di ogni linguaggio, è che tutti lo possono capire. Se esiste qualcosa di pubblico, questo è il linguaggio, che è pubblico per definizione. Un linguaggio che non si capisce non è un linguaggio. Questo vale anche nel caso di un linguaggio che solo poche persone possono comprendere, perché quello che conta è che ci sia almeno qualcuno (più di uno) capace di comprenderlo. E un linguaggio che può capire solo una persona, è ancora un linguaggio? La risposta di Wittgenstein, nelle Ricerche filosofiche, è netta, no, non è un linguaggio. Anche perché, e questo non viene sempre messo in evidenza, in realtà anche quell’unico parlante non sarebbe propriamente in grado di comprenderlo. Perché si può dire che qualcuno conosce un linguaggio quando è in grado di distinguere fra un uso corretto ed uno scorretto di quello stesso linguaggio.
Ma se un linguaggio è privato vuol dire che nessuno, oltre al suo ipotetico “possessore”, è in grado di stabilire se un certo uso di quel linguaggio è corretto oppure sbagliato. Poniamo che questo solitario parlante usi una certa espressione, ad esempio la sequenza di “A” che possiamo osservare qui sotto nella riproduzione di una tela di Gastone Novelli. Immaginiamo che chi ha tracciato questi segni si chieda, ad un certo punto, se sta usando il suo linguaggio “privato” in modo corretto o scorretto. Qui si pone un problema. Non c’è modo per accertarlo, perché non esiste alcuna “autorità” esterna che possa stabilire se questa sequenza è corretta oppure no. Il solo parlante solitario, proprio perché è solo, non è in grado di fare questa distinzione. Al massimo potrà credere di farla, ma una regola è una “vera” regola solo se la differenza fra applicazione corretta e applicazione scorretta è “oggettiva”.
Nel nostro caso il parlante solitario non potrà mai sapere, proprio perché la sua è una condizione di assoluta solitudine linguistica, se usa correttamente il “suo” linguaggio. Quindi un linguaggio privato non può esistere per nessuno. D’accordo, il linguaggio è pubblico. Ma questo significa, ed è un corollario fastidioso, che quello che possiamo esprimere con questo linguaggio è quello che chiunque avrebbe potuto esprimere. Certo, lo esprimiamo noi, ma proprio perché nel linguaggio non c’è nulla di singolare, allora anche un altro avrebbe potuto esprimerlo. Nel linguaggio non esiste la proprietà privata. Il pensiero più sublime è un pensiero che in fondo potrebbe avere avuto chiunque altro, dal momento che tutti pensiamo nello stesso linguaggio.
È intorno a questa consapevolezza che si snodano i ragionamenti sul linguaggio e l’arte del pittore Gastone Novelli (1925-1968), raccolti nel volume Scritti ’43-’68 (Nero Edizioni, Roma 2019). Perché un pittore dovrebbe occuparsi di linguaggio? Proprio perché Novelli è un artista, un pittore, e il problema dell’artista è quello di trovare la sua voce, che è una voce soltanto se è affatto inconfondibile e unica. Cioè solo se l’artista si avventura nella costruzione del suo impossibile linguaggio privato. In quel linguaggio, che nessuno è in grado di comprendere, l’artista per primo, è racchiusa la sua voce; per essere più precisi, quel linguaggio coincide con la sua indicibile e incomprensibile voce. Un artista è un artista proprio perché ha saputo costruire il “proprio” linguaggio, che però come abbiamo appena visto non è un linguaggio.
Tuttavia la voce dell’artista (ed è artista chiunque cerchi la “propria” voce) non è altro che questa necessaria impossibilità. Per questo motivo, scrive Novelli, «una sola cosa deve essere reale per ogni pittore: la sua pittura» (ivi, p. 61). Nella pittura, cioè nella sua voce, l’artista esiste come artista, cioè come qualcuno che è riuscito a costruire il “suo” linguaggio privato. Ma siccome questo linguaggio è incomprensibile, allora l’artista deve lavorare alla costruzione della propria stessa incomprensibilità: «È come voler scrivere con un alfabeto ancora da inventare» (ivi, p. 119). Ma come scrivere con un alfabeto che ancora non esiste? Appunto, l’artista è artista solo se non smette di confrontarsi con questa impossibilità che lui stesso non cessa di sperimentare.
In questo senso il problema dell’artista è un problema di linguaggio. Più in particolare della contrapposizione posta da Novelli fra quello che chiama «linguaggio accademico» e «linguaggio magico». Mentre il primo «rappresenta, imita i dati acquisiti di una realtà storica» – cioè funziona appunto come un qualunque linguaggio, che “rappresenta” un contenuto già stabilito – il secondo, invece, è un linguaggio «figurativo attivo, creativo» che «nasce dalla necessità di una totale remise en question delle strutture preesistenti per portare alla comunicazione i risultati di una nuova visione» (ivi, p. 264). Tuttavia, parlare di linguaggio non ha tanto a che fare con la comunicazione (come se quello di Novelli, in linea con la moda strutturalista degli anni ’60, fosse un problema propriamente semiotico), quanto con la vita stessa dell’artista.
La posta in gioco del linguaggio magico, infatti, è che la «pratica continua con proprio linguaggio finisce con l’impegnare l’esistenza stessa di chi la produce» (ivi, p. 265). Non si tratta di comunicare nuovi contenuti, piuttosto di far coincidere il linguaggio (magico) con la propria stessa vita. Qualunque “nuovo” contenuto espresso in un «linguaggio accademico», infatti, non sarebbe altro che un ennesimo contenuto comunicabile, quindi non varrebbe più di qualunque altro contenuto che si sarebbe potuto comunicare con quel linguaggio. Si tratta invece di mettere in campo non nuovi segni, bensì una nuova e diversa forma di vita.
Novelli non può non occuparsi di linguaggio perché è interessato ad una vita singolare e unica, cioè una vita artistica. Per questo motivo esistenziale e non linguistico «il soggetto» di un dipinto, scrive nel 1950, «sia esso un punto o un paesaggio una forma od una figura, va prima di tutto capito, digerito perché se ne formuli una ipotesi» (ivi, p. 61). Il soggetto, cioè, va liberato dalle «sovrastrutture interpretative proprie alle parole e alle immagini» (ivi, p. 260), per essere appunto trasformato in una ipotesi, cioè in qualcosa ancora da sperimentare, ancora pieno di possibilità inespresse. Bisogna cioè trasformare il comprensibile in incomprensibile. Occorre trovare l’inesprimibile nel cuore stesso dell’esprimibile. Cioè bisogna rovesciare il linguaggio, la sua pretesa di totale dicibilità, di assoluta trasparenza, alla ricerca del suo punto cieco, ossia del nostro introvabile linguaggio privato, quello che appunto è il «linguaggio magico».
Ma come costruire questo linguaggio? Non si può non partire da qualcosa di già esistente, cioè un linguaggio dato, pubblico e comprensibile: «In primo luogo è necessario catalogare gli strumenti (alfabeti, segni, frammenti) di cui si dispone» (ivi, p. 152). In effetti, proprio perché ciascuno di noi già si trova in un linguaggio, si tratta di partire da questo stesso linguaggio. Tuttavia occorre avere la sventatezza di usarlo non come un insieme di segni consolidato (questo è il «linguaggio accademico»), bensì come se fosse una lingua morta ormai misteriosa e incomprensibile (come i geroglifici prima della loro decifrazione): a questo punto «si procede alla organizzazione di questi» materiali preesistenti «in una struttura, in un insieme grammaticale, analizzabile e preciso» (ivi, p. 152). Un nuovo linguaggio, appunto, che non può che nascere da un rimescolamento dei resti («sono proprio i resti che mi servono», ivi, p. 159) di linguaggi perduti, cioè usurati dall’uso.
Ma che cosa resta di un linguaggio quando non opera più come linguaggio? Una lettera dell’alfabeto che non è più segno di un suono non è altro che una cosa, una traccia materiale, una macchia di colore. Il «linguaggio magico» è fatto di questi resti: «I segni sono concreti quanto le immagini (le lettere quanto le parole), ma hanno un loro potere referenziale per cui, anche essendo essenzialmente relativi soltanto a sé stessi, possono anche fare le veci di qualche cosa d’altro. Per questo motivo mi interessa procedere dai segni e dalle lettere, e non dalle immagini o dalle parole» (ivi, p. 152). Novelli è interessato non a quello che le parole possono dire o che le immagini possono già comunicare; al contrario, gli interessa costruire un “nuovo” linguaggio che sia libero del peso di tutto ciò che è già stato detto e pensato con quelle parole e quelle immagini. In realtà Novelli vuole preventivamente liberarsi anche di tutto quello che con quelle parole e quelle immagini si potrà dire in futuro.
In effetti un linguaggio non è altro che quello che il suo lessico e le sue regole di combinazione permettono di dire: è per provare a sfuggire a questo blocco, tanto attuale che potenziale, che un artista deve costruire il “suo” «linguaggio magico». Un linguaggio che è magico perché fuori dal tempo, dal momento che il tempo è quello del «linguaggio accademico»; pertanto, prosegue Novelli con la sua inflessibile logica poetica, «il linguaggio magico elabora un sistema strutturato utilizzando residui e frammenti, “testimoni fossili della storia di individuo o della società”, in modo del tutto astorico» (ivi, p. 153). In modo astorico appunto perché è un nuovo linguaggio quello che sta sorgendo, che racconterà infatti una nuova e impensabile storia, perché non esistono ancora le parole e le immagini per esprimere il nuovo che potrebbe nascere.
In effetti lo stesso Novelli non ha idea di cosa potrebbe nascere da questa combinatoria di «resti», si tratta solo – come sappiamo – di una «ipotesi»: «I cumuli dell’estraneo, gli amori consumati, le cose che si possiedono da troppo tempo e alle quali siamo legati dal senso della proprietà e dall’abitudine anche se non ci eccitano più, atrofizzano la nostra libertà e quindi la possibilità di espansione del nostro linguaggio. È necessario avere il coraggio di un continuo salto nel vuoto, di spogliarsi appena si è vestiti» (ivi, p. 243).
Se ora proviamo a ripercorrere il peculiare procedimento “linguistico” di Novelli, ci accorgiamo perché le sue riflessioni ruotino così insistentemente intorno al tema del linguaggio. Il suo è un problema tutto artistico, trovare un linguaggio nuovo che coincida con la sua inesprimibile voce. Un linguaggio così nuovo che nessuno possa ancora comprendere, compreso come sappiamo lo stesso artista. In effetti l’arte non procede dalla comprensione e dalla comunicazione, vale semmai il contrario, dalla cocciuta e insensata volontà di articolare un nuovo linguaggio che sorga dai «resti» di quelli precedenti, consumati dal loro stesso successo, cioè dalla loro universale comprensibilità. Per questa ragione «il lavoro artistico si può paragonare ad un “gioco” che ha le sue regole precise ma permette infinite partite, ed ogni singola partita è comprensibile solo attraverso la conoscenza delle regole del gioco a cui appartiene» (ivi, p. 153).
Ma che regole possono essere delle regole private? Quella che serve è una autocontraddittoria regola non regolare, cioè una regola senza modello, che finisce per coincidere con un caso singolo, quindi unico e irripetibile, cioè senza regola: «Mi sembra importante stabilire che, secondo me, il momento principale, nella fattura di un’opera, è l’esecuzione, non l’occasione o la destinazione dell’opera stessa, la quale, per questo motivo, risulta extra temporale e non legata a nessuna circostanza» (ivi, p. 153). È questa la voce, indicibile, impensabile, unica, dell’artista. Che poi non è altro, continua Novelli, «che la pratica continua del proprio universo», che «per un artista» è «la cosa più importante» in modo che «in questo modo di essere si manifesti la “funzione” [dell’arte], se proprio la volete, verso un numero infinito di interlocutori non identificabili» (ivi, p. 155).
In effetti se il linguaggio poetico dell’artista è un linguaggio privato, allora non esiste nessun interlocutore identificabile per questo linguaggio. Al contrario, sarà questo stesso linguaggio che si costruirà i propri eventuali ma al momento inesistenti interlocutori:
Per prima cosa tracciare, incidere (come gli Etruschi il campo), il paesaggio dell’uomo, il mare e la serie delle onde, vibrazioni, la foresta e le parole. Come il geroglifico che accompagna le colonne, certe volte in cima, altre volte in fondo, spesso al centro. Il blocco delle lettere o la grande parte laterale a scacchi, sono “quello che sorge e fa sorgere”, mette in piedi, innalza, abborda e anche getta l’ancora. E poi l’epigrafe (al fondo): sentenza che ironizza il pensiero dominante dell’opera; leggenda: iscrizione circolare, nel senso buono, da sinistra a destra; proclamazione, operazione: nascere, valore operativo, alzarsi (orior) ecc. (ivi, p. 237).
C’è una specie di alfabeto, allora, ma senza lingua. Oppure c’è una lingua, ma senza alcun alfabeto. L’arte è questa indistinzione fra lingua e alfabeto, fra voce e comunicazione. Ci sono residui di linguaggio, resti da ricomporre, mondi da esplorare. «La mia pittura», dice Novelli in una intervista del 1964, «non è né ottica né contenutistica, ma, diciamo, linguistica. Cioè è come un gioco: in ogni gioco ci sono delle regole precise; però puoi seguire una infinità di partite diverse con queste regole, e, conoscendo le regole, puoi analizzare ogni singola partita secondo un certo metodo; come un rito magico. Quindi la mia pittura è un linguaggio di un certo tipo, articolato su uno schema preciso, che però non nasce da altri schemi precedenti» (ivi, p. 167).
Ma allora in che senso il gioco si basa su regole? Novelli sembra contraddirsi, perché o ci sono le regole, e allora ogni partita deriva da «schemi precedenti», oppure è un «rito magico», che non ha bisogno di regole a cui rifarsi. In questa contraddizione risiede la voce dell’artista Novelli, la stessa contraddizione implicita nel concetto di “linguaggio privato”, che o non è privato o non è un linguaggio. Eppure la voce è esattamente un linguaggio privato, oppure non sarà una voce.
Torniamo così al punto di partenza, all’avventura di questa arte che è linguistica senza essere comunicativa e segnica senza essere semantica:
In un certo contesto un certo segno apparterrà certamente alla luna (e quindi una certa luce, materia, ecc.), un altro al sole, alla carne, all’ironia e così di seguito. La Natura, turbata da questi nemici (i linguaggi), accorre, ti entra nel cuore e cerca di strapparti l’Immaginario. Ma cosa è poi “natura” e “reale”? Difficilmente si può essere sicuri della distanza di un oggetto la cui luminosità cambi con una certa frequenza. La geometria stessa non è attendibile quando i suoi aspetti perdono funzioni e significati se li si trasferisce in un contesto diverso. Questa indeterminatezza conta, giustifica il viaggio (ivi, p. 247).
Ma che cos’è questo viaggio, infine, se non appunto una continua e insistita esitazione fra voce e linguaggio, fra la tentazione dell’incomprensibile ed il conforto rassicurante della comunicazione intersoggettiva? Fra l’essere affatto solato (perché non si possiede neanche la propria solitudine) ed essere come tutti? L’artista non più colui che esprime qualcosa, siano emozioni o propositi morali, piuttosto chi insiste in questo corpo a corpo con il linguaggio: artista, infatti, è colui «la cui stessa esistenza finisce con l’essere impegnata dalla pratica continua con il proprio linguaggio» (ivi, p. 285).
Riferimenti bibliografici
P. Bonani, a cura di, Scritti ’43-’68 di Gastone Novelli, Nero edizioni, Roma 2019.
*L’immagine di anteprima dell’articolo è un dettaglio della copertina del libro.