Cosa succede all’amore quando l’unione va in crisi, quando ci si riscopre estranei nella calda intimità dell’abitudine, quando la distanza diventa tanto evanescente quanto incolmabile? Hagai Levi, che con The Affair si era già confrontato con il tema d’amore, nel formato inedito dell’incrocio tra piani temporali e prospettive dei personaggi, sceglie questa volta di cimentarsi con un adattamento dell’opera di Bergman del ’73. E per riuscire in questa impresa, certamente rischiosa, sceglie forse l’unica strada possibile: trasformare quel racconto universale della fine del matrimonio, che in fondo non è mai tale, nel racconto di una vita matrimoniale in particolare, quella di una coppia americana di oggi. Levi, in sostanza, trasforma quella serie prima della serialità, che è l’opera insuperabile di Bergman, in una miniserie post-Netflix.
Il primo passo di questa trasformazione è l’immersione del racconto nel presente. Nelle primissime scene vediamo la casa dall’esterno, una villetta a schiera come tante se ne vedono nei quartieri residenziali americani, che sarà il palcoscenico principale sui cui agiscono i personaggi. Non siamo in un luogo indefinito e sospeso, un luogo neutrale come sembrava con Bergman, ma siamo in America, oggi. Il presente irrompe sulla scena dalle primissime battute del racconto: Mira e Jonathan vengono intervistati da una dottoranda che sta facendo una ricerca sulla durata del matrimonio nelle coppie in cui il primo reddito è quello della donna e che all’inizio di questa intervista chiede loro con quali pronomi identificarli. Nella scena successiva, gli amici a cena, la cui crisi prelude quella dei protagonisti, non litigano più per come spartire i beni in caso di separazione, ma perché, dopo aver costruito una relazione aperta, basata sul poliamore, ora il marito non riesce ad accettare la sofferenza della moglie per la fine di una delle sue relazioni. Levi dunque costruisce un mondo attorno ai protagonisti, un presente che li avvolge, ben noto allo spettatore, in cui ruoli e istituzioni diventano concetti liquidi, difficili da maneggiare, un presente in cui l’individuo fatica a stare dentro quel naturale processo esistenziale di autodefinizione.
Il secondo decisivo movimento di questa trasformazione contemporanea di Scene da un matrimonio è l’inversione dei ruoli, anch’essa in un certo senso figlia di questo tempo. Nel racconto di Bergman la crisi deflagra quando Johan torna a casa una sera e comunica alla moglie la sua decisione di abbandonare la famiglia per andare a Parigi con la donna di cui si è innamorato. Nella versione di Levi, invece, è Mira (Jessica Chastain) che decide di lasciare la famiglia per seguire la vitalità di un nuovo incontro amoroso. I ruoli sono completamente invertiti e con essi la direzione in cui si muove il movimento di cura, che ha in Jonathan (Oscar Isaac) il suo motore. È lui che si prende cura della figlia, della casa, della vita familiare nei suoi aspetti più quotidiani. Jonathan ha trasformato i valori dell’ebraismo ortodosso, la sua eredità familiare, in una sorta di morale laica, che gli ha dato l’illusione di poter essere il perno su cui si regge la famiglia. Ed è significativo che mentre in Bergman non vediamo mai le due figlie della coppia, in Levi è proprio la decisione di abortire, di rinunciare al secondo figlio, la miccia che sembra dare avvio alla crisi. “Chi rinuncia ad un figlio per salvare il matrimonio?” si chiede Mira in uno dei primi travagliati confronti in cui i desideri espliciti e quelli taciuti fanno capolino.
Dopo i primi due episodi in cui Levi, quindi, definisce le coordinate di questa operazione di trasformazione, la serie prosegue con relativa fedeltà all’originale lasciando spazio a quell’insensata ragnatela di emozioni e sentimenti che emerge nei dialoghi intensi e serrati dei due protagonisti. Ma, ancora, dalla fitta trama di rivendicazioni e recriminazioni, incomprensioni e aspirazioni disattese, emergono in controluce i temi del presente. Mira alla fine deve scegliere tra la carriera e il suo ruolo di madre, mentre Jonathan deve fare i conti con una dimensione personale che va oltre quel ruolo domestico che si era ritagliato. Decisivo, in questo senso, è l’ultimo episodio, quello più lontano dal film di Bergman, in cui li ritroviamo amanti nella loro vecchia casa, affittata per una notte con Airbnb, uguali eppure completamente trasformati.
Pur nella quasi totale sovrapponibilità delle scene, l’operazione di contestualizzazione del racconto ne ha ridefinito in modo decisivo i contorni. In Bergman era in gioco il senso stesso del matrimonio: la specifica declinazione, quella di Merieme e Joan, diventa il luogo esemplare attraverso cui poter cogliere, nella crisi, l’essenza dell’unione e le dinamiche universali che la determinano. In Levi invece, forte proprio dell’eredità bergmaniana, l’accento viene spostato sul particolare, sulla contingenza storica in cui quelle dinamiche prendono forma e si dispiegano.
In questa operazione di serializzazione della drammaturgia bergmaniana, allora, la serie di Levi diventa forse una delle migliori risposte a quella apparente standardizzazione creativa a cui le serie post-Netflix sembrano essere destinate, perché ribadisce la capacità del racconto di lunga durata di costruire percorsi in cui lo spettatore può sedere accanto ai protagonisti delle storie, soffrire con loro, vivere con intensità i loro cambiamenti, in una dinamica seriale di rispecchiamento e distanziamento. E ritrovarsi così in quel particolare, che alla fine riesce sempre a parlare un po’ di noi.
Scenes from a Marriage. Regia: Hagai Levi; sceneggiatura: Hagai Levi, Amy Herzog; fotografia: Andrij Parekh; montaggio: Yael Hersonski; scenografia: Kevin Thompson; costumi: Miyako Bellizzi; musica:Evgueni e Alexandre Galperin; suono: Charles Hunt; origine: USA; durata: 294′; anno: 2021.