Interno di una casa borghese. Un uomo e una donna, seduti davanti allo schermo di un tablet, e la voce di una donna collegata da remoto. L’intervistatrice chiede a Giovanni, docente universitario di psicologia, e a Marianna, avvocato esperto in diritto di famiglia, di descrivere se stessi, il primo incontro, di parlare del loro matrimonio; fa domande sulla fedeltà, sui figli, sulla felicità: inizia così l’anatomia di una coppia che sembra perfetta. Sembra. Le risposte lasciano trapelare ombre; le figlie sono appena nominate e non appariranno mai; affiora anche l’ombra di un bimbo morto appena nato.
Un chiaro-scuro apre dunque lo spettacolo teatrale Scene da un matrimonio, regia di Raphael Tobia Vogel, con Fausto Cabra e Sara Lazzaro, tratto dal leggendario film Scener ur ett äktenskap di Ingmar Bergman (1974), nato dall’omonima serie TV in sei puntate (1973), entrambi interpretati da Liv Ullmann (Marianne) e Erland Josephson (Johan). Una re-visione del film di Bergman su più livelli come quella messa in atto al Teatro Franco Parenti da Vogel (14-24 marzo) implica coraggio. Eppure fin dalla prima delle otto scene dello spettacolo è chiaro che il regista e i suoi compagni di viaggio hanno mani e fili per tessere la tela migliore e sono lontani dal cercare accostamenti semplicistici e banali sovrapposizioni.
Non si può che condividere la scelta di dare vita teatrale alla creazione di Bergman perché molte delle questioni sollevate dal regista svedese quarant’anni fa si avvertono ancora urgenti. Con lo spettacolo di Vogel il pubblico è indotto a mettersi profondamente in gioco; i due protagonisti (Lazzaro-Marianna e Cabra-Giovanni) sanno provocare, generare empatia, anche negativa, sanno spalancare scenari sugli egoismi, sull’incapacità o impossibilità di conoscersi, sulle parole non dette e che potrebbero salvare o uccidere, sulle maschere che si indossano, con e senza consapevolezza, su certe tragicommedie familiari, sulla verità e sulla menzogna, sulla violenza (domestica, anzitutto), sul perdonare l’altro che è spesso, prima ancora, perdonare se stessi, sul dovere di reinventare la vita che altrimenti fugge opaca. Il pubblico che assiste alle scene come se guardasse Giovanni e Marianna attraverso una lente in grado di illuminare tutto, comprese le zone d’ombra, viene messo nelle condizioni di non limitarsi a guardare. La partecipazione fisica ed emotiva dello spettatore è totale.
Il film di Bergman diventa perciò un ipotesto discreto. Le otto scene, tutte titolate, generano molte altre possibili associazioni: ad esempio con Anatomia di una caduta di Justine Triet o con Storia di un matrimonio di Noah Baumbach o con la pregnante ripetitività di Perfect days di Wim Wenders; in alcuni momenti si può avvertire l’eco di Barthes e del suo Frammenti di un discorso amoroso; in altri, penso alle angoscianti proiezioni video con parti del viso di Marianna (Scena 5), si percepiscono riflessi della pittura di Francis Bacon; in qualche attimo dell’ultima scena (8), sembra di sentire Aria di neve di Sergio Endrigo. Sembra.
La vita di Marianna e Giovanni che si vede in scena è tutta in un interno-casa, di fatto un terzo personaggio con un arco di sviluppo ben marcato: la sala con l’ingresso; un piccolo spazio che divide questo ambiente dalla camera da letto; la camera da letto e infine una stanza interdetta allo sguardo del pubblico. La metamorfosi dell’interno abitato è parallela a quella della vita coniugale e individuale di Marianna e Giovanni. Lo spazio racconta la storia di un amore che è (stato) tenerezza, maschera, tradimento, passione, maltrattamenti, nostalgia, forse di nuovo amore. E tutto questo viene raccontato anche da costumi, luci, musiche, dai cambi di scena a vista.
Alla danza imperfetta dell’amore dei protagonisti partecipano attivamente anche le presenze-assenze, delle figlie e dei bambini perduti – uno avuto da Marianna prima di Giovanni, l’altro con lui ma mai nato per volontà di entrambi (Scena 4) –, della madre di Marianna, nella cui presenza tossica Lazzaro fa ricordare anche la madre anaffettiva di Sinfonia d’autunno di Bergman (Scena 2: L’arte di nascondere la spazzatura sotto il tappeto), delle amanti di lui e degli amanti di lei, della nuova moglie e del nuovo marito. Come un’ombra inquietante, sulla parete della camera da letto comincia ad aprirsi una simbolica crepa bianca (finale Scena 2 e 3). Creata artatamente dalle luci, la crepa appare e scompare ma la sua presenza effimera ha lasciato il segno e il suo ampliarsi alla fine della Scena 3: Il letto di chiodi vale come segnale metateatrale.
Tornati a casa dopo aver visto Casa di bambola di Ibsen, Giovanni e Marianna discutono di “patriarcato” e “post femministe patetiche” (parole di lui), della noia e dell’insoddisfazione di coppia. Si accusano. Le parole sono frecce che colpiscono e ad averle preparate è stato Ibsen. Di qui è un precipizio. Tornato a casa da un viaggio di lavoro, Giovanni confessa a Marianna di essere innamorato (Scena 5: Paola) ma è il come si arriva alla confessione ad essere straordinario. Sul pavimento della sala sono disseminati in uno stato di abbandono una trottola e altri giochi e in questo spazio da natura morta Giovanni si tocca la fede. L’azione è quasi impercettibile, eppure in quel gesto minimo Cabra-Giovanni fa sentire il peso del disagio a stare in un luogo senza più vita e il dolore di una vita che non gli appartiene più. Nel ripetere quel gesto trova la forza per spezzare il simbolo del matrimonio. Per dire: “Mi sono innamorato” e descrivere il nuovo amore. Ma Giovanni descrive anche il suo stato d’animo stretto tra dolore, rimorsi, amarezza; la necessità di scappare da quell’interno-gabbia; l’amore per Marianna che resta, “forza magnetica inspiegabile” (Vogel). Cabra trova registri perfetti per esprimere il difficile attraversamento di una geografia emozionale labirintica.
Nell’ultima notte tutto è in movimento senza che si riesca a trovare da dove ripartire. Marianna e Giovanni si dividono tra camera da letto (lei) e divano in sala (lui). Il cuore della notte sembra portare la tregua: Giovanni è disteso in fondo al letto e Marianna lo avvolge. Sulle pareti scorrono immagini video con il volto di lei in frammenti sovrapposti; parti del corpo scomposte, i contorni che si fanno liquidi; voci che si mescolano e rumore di piatti che cadono e si frantumano. Marianna che si chiude per un istante nella valigia di Giovanni. Tutto questo appartiene al tempo della notte ed è proiezione di un incubo e del buio dell’anima.
La sequenza delle azioni del risveglio è implacabile perché segue il ritmo straziante di un addio. Il punto più alto è la spinta di Giovanni che allontana da sé Marianna e la fa cadere. Lazzaro è strepitosa nel rovesciare il corpo, nel far sentire il peso dell’abbandono e della vita che le cade addosso. Il suo urlo prolungato e soffocato ha una potenza tale da trascinare tutto, oggetti, pareti della casa, e noi nel suo abisso. Il divorzio attraversa le due scene successive, Scena 6: La valle di lacrime e 7: Gli analfabeti dei sentimenti dove inizialmente è Marianna ad essere in una posizione di forza rispetto a Giovanni, relitto tra relitti di bottiglie di vodka e scatoloni, tradito da Paola e privato dell’ambita cattedra in America.
Ma le schegge di analfabetismo sentimentale hanno punte affilate che feriscono a morte e i demoni sono in agguato, annidati nelle scatole di cartone e tra le carte del divorzio da firmare. Demoni violenti e feroci, che trascinano Giovanni e Marianna da un punto all’altro di uno spazio claustrofobico quanto mai: sono parole che parlano di azioni di sangue, odio, di un desiderio, eccitante e perverso, che l’altro muoia. Poi si fanno azioni – sputi e lanci di scarpe –; di nuovo parole, che inondano lo spazio di paure e frustrazioni in cui si annida il dolore di aver fallito. Tutto è costruito con alternanza perfetta: come se ci si trovasse di fronte a una luce che si accende e spegne nevroticamente.
D’improvviso la casa si illumina di un colore verde acido, freddo; la musica fa immaginare atmosfere da incubo. Nessuna parola ma solo azioni che sono tempesta. Nessun contatto fisico, all’inizio: Giovanni fissa Marianna come un predatore punta la preda. La violenza che segue è un fulmine. Il finale della Scena 7 è indimenticabile e memorabile anche l’ottava e ultima scena (In piena notte, in un posto buio, da qualche parte del mondo), in cui Vogel compendia l’amarsi “imperfetto e terreno” di Marianna e Giovanni con il pianto su ciò che ha fine, con una luce bianca, un video in bianco e nero del matrimonio, la neve chiusa in una sfera di vetro e un’altra neve che cade su due corpi forse ritrovati.
*La foto in copertina è di Luca Condorelli.
Scene da un matrimonio. Testi: Ingmar Bergman; traduzione: Piero Monaci; adattamento: Alessandro D’Alatri; regia: Raphael Tobia Vogel; interpreti: Fausto Cabra, Sara Lazzaro; scene: Nicolas Bovey; luci: Oscar Frosio; musiche: Matteo Ceccarini; costumi: Nicoletta Ceccolini; contenuti e montaggio video: Luca Condorelli; produzione: Teatro Franco Parenti.